«In Svizzera è necessario garantire anche in futuro una capacità industriale adeguata alle esigenze della difesa nazionale», questo è il motivo per il quale il Consiglio federale ha deciso in giugno di allentare le restrizioni riguardanti l’esportazione di materiale bellico e permettere che questo venga venduto anche a paesi implicati in un conflitto interno. Ad agosto la commissione della politica di sicurezza del Consiglio nazionale ha dato il suo benestare alla modifica dell’ordinanza in questione. Non sono mancate le critiche, che questa volta arrivano un po’ da tutte le parti, non solo dalla sinistra e dalle Ong che si occupano di diritti umani. «Quello che mi sembra incredibile è che la Svizzera rinunci a un aspetto della sua neutralità mettendosi a vendere armi a nazioni in situazione di conflitto interno, dove non c’è mai nessuna garanzia che queste possano essere utilizzate anche contro i propri cittadini o in un conflitto asimmetrico nazionale. Dal punto di vista della politica estera mi sembra una decisione molto problematica. Si è visto già in molti casi che i paesi che acquistavano le armi dicevano di mantenerle a casa propria e poi queste armi si sono ritrovate in Siria, in Libano o sono state utilizzate nel conflitto interno del Bahrein. Non c’è modo di controllare che questo non avvenga, anche con tutte le garanzie», spiega Carlo Sommaruga, consigliere nazionale socialista (Ge) e membro della commissione di politica estera e di quella della politica di sicurezza. Come si è giunti a questa decisione? «L’industria svizzera della tecnica di difesa ha spiegato alla Commissione della politica di sicurezza del Consiglio degli Stati che la situazione economica del settore è difficile e che la base tecnologica e industriale rilevante per la sicurezza della Svizzera è a rischio», spiega nel comunicato del 15 giugno il Consiglio federale. Secondo i dati della Seco nel 2017 il settore ha però avuto un incremento dell’8 per cento e a ben guardare dal 1988, a parte un periodo di “vacche grasse” tra il 2007 e il 2015, non sono mai stati superati i 446,8 milioni di franchi del 2017 (vedi grafico). Secondo Sommaruga il discorso del Governo non regge: «Dicendo che le esportazioni permettono di mantenere un’industria nazionale, il Consiglio federale fa un discorso totalmente falso, di un sofismo scandaloso. In Svizzera compriamo aerei, carri armati, cannoni, e adesso anche tutti i mezzi per la difesa antiaerea dall’estero. Le uniche cose che produciamo e utilizziamo sono pistole, fucili, mezzi corazzati e camion militari, elementi che sono puramente secondari nel quadro della difesa svizzera. Quindi venire a dire che dobbiamo dare più possibilità all’esportazione delle armi per garantire un’industria che permette di mantenere il nostro esercito è una cosa fasulla». In effetti il nostro esercito è già in gran parte dipendente dall’estero con aerei da combattimento statunitensi, elicotteri francesi, droni da ricognizione israeliani e carri armati svedesi. Inoltre, anche l’industria degli armamenti nel nostro paese non è totalmente svizzera se consideriamo che si compone di molti piccoli attori e tre grandi, che sono: Ruag, Air Defence e Mowag, ma solo Ruag è in mani elvetiche, mentre le altre due sono gestite da tedeschi e da americani. Nel comunicato stampa, il Consiglio federale, riferendosi all’industria bellica, parla di un sistema industriale relativamente solido, anche se risente sempre più della concorrenza internazionale e ha un mercato interno stagnante. Quindi che fare? Occorre cercare nuovi mercati per “salvare” la rimanente capacità industriale permettendo l’esportazione di materiale bellico in zone di conflitto. Secondo Sommaruga «dietro questa decisione c’è la volontà di permettere a Rheinmetall Ag, di poter vendere un sistema antiaereo, prodotto parzialmente in Svizzera, alla Thailandia, ma siccome in Thailandia c’è un conflitto interno non lo possono fare. Il problema è che per un interesse particolare si vuole completamente cambiare il regolamento, il che permetterebbe poi ad altre industrie di poter approfittare di questo. Il fatto è che queste armi che oggi possono essere utilizzate per la difesa militare (come giustifica anche la Seco nel quadro di questa modifica – ndr) domani potranno essere utilizzate anche nel quadro di un conflitto interno». Una situazione problematica anche dal punto di vista della credibilità che la Svizzera vuole avere nel portare avanti sulla scena internazionale la politica del disarmo: proponendosi come attore del dialogo sul disarmo e contemporaneamente aumentando la sua presenza nella vendita di materiale bellico anche in situazioni di conflitto.
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