Parto da un esempio esterno, con valore universale, utile anche in casa nostra. Uno studioso di una università americana si è posto la domanda: che cosa accadrebbe se il gigante del “fast-food” dovesse raddoppiare di botto il salario dei propri dipendenti? Moltiplicare per due un salario di 7,25 dollari all’ora (6,60 franchi) sarebbe la catastrofe? No, dimostra lo studioso: si tratterebbe solo di aumentare di pochi centesimi un Big Mac (l’universale grosso sandwich). Per un motivo semplice: neppure il 17 per cento dei redditi che MacDonald’s guadagna finisce in salari (compreso quello del gran capo Donald Thompson che è di quasi 9 milioni di dollari all’anno) e quindi non sarebbe una gran distorsione. L’esempio è interessante per almeno due motivi: perché vien dimostrato che quel salario ha oggi un potere d’acquisto inferiore a quello degli anni 50 e quindi il lavoro ha perso enormemente; perché vien dimostrato che nel capitalismo finanziario attuale i redditi creati finiscono nella misura massima del possibile in guadagni per una ristretta élite (azionisti, banche, fondi speculativi, managers). Il caso citato, macroscopico, lo si trova su scale ridotte anche alle nostre latitudini. Perché è diventato sistema. Come? Innanzitutto per una coalizione di fatto tra un blocco finanziario ed uno politico. Finanza, ceto politico, tecnocrati vari, istituzioni nazionali o europee procedono con la logica della massima competitività e produttività che significa, in pratica, riduzione del lavoro a merce (possibilmente a basso costo) ma anche a colpa, pressione e ricatti sui salariati, banalizzazione e scardinamento dei diritti dei lavoratori, smantellamento graduale dello stato sociale in quanto costoso (imposte) e improduttivo, rifiuto e fughe fiscali, attacco alla presenza sindacale, priorità assoluta agli interessi del capitale. In secondo luogo perché si è riusciti a far passare un’idea tanto giustificante quanto assurda: la disuguaglianza è utile. E cioè: il capitalismo crea diseguaglianze (e le diseguaglianze di reddito crescono e sono enormi) ma è grazie ad esse che si creano gli incentivi per affrontare il rischio e per muovere i capaci a produrre più ricchezza. La quale verrà distribuita anche verso il basso, in modo che tutti ne godranno. Insomma, la diseguaglianza è un bene e la critica nasce solo dall’invidia o dall’incapacità. In concreto si vuole anche dire che l’economia, per funzionare, ha bisogno della massima libertà, della non ingerenza di nessuno o che lo Stato non deve regolare le attività della sfera economica intervenendo con criteri extraeconomici (sociali, ad esempio, o sostenendo i diritti dei lavoratori, salari minimi ecc.). Lo stato delle cose è questo. Antidemocratico. Perciò ci vogliono dei contropoteri, organizzati e radicati nella società. In primo luogo, tra questi, la rappresentanza sociale del lavoro che possono incarnare i sindacati. C’è però sempre il pericolo di rimanere accerchiati dalla competitività sociale e dalla diseguaglianza utile. Un cerchio infernale. Se il problema del lavoro dovesse infatti ridursi a come garantire una “migliore” sopravvivenza e un po’ più di consumi, si correrebbe ancora il rischio di accettare una sorta di neocorporativismo scellerato tra alcuni meglio garantiti e molti altri, scerpa dell’economia sempre speranzosi, oppure la disponibilità a cedere sui diritti per poter lavorare e sopravvivere. Uscirne o reinventare il lavoro non è facile ma lo pretende anche la salvaguardia della democrazia.
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