L’ossimoro è uno sposalizio tra parole che sembrano escludersi l’una l’altra (come: una lucida follia, un felice errore, un acuto silenzio). È apparsa recentemente un’espressione con ossimoro che non può non intrigare: “Si va verso un capitalismo comunista”. Capitalismo e comunismo sono antitetici, non vanno d’accordo. Si dà poi per scontato che da trent’anni l’uno abbia seppellito l’altro. Anche se ciò non significa che il primo sia in perfetta salute. Anzi, a dieci anni dall’ultima batosta che ha scosso pure lui (la crisi del 2008) non si è mai rimesso. Tanto che gli esperti si affannano attorno e non escludono una prossima ricaduta. Che mascherano per il momento con altro strambo ossimoro, che sa già di quaresima: crescita recessiva. Perché, quindi, si parla di “capitalismo comunista”? Non è facile da spiegare. Possiamo tentarci. Diciamo, per farla breve, che per capitalismo qui si intende il sistema economico dove il capitalista (l’imprenditore, i dirigenti delle grandi imprese, i finanzieri) trasforma i surplus (i profitti) in capitale supplementare (attraverso altri investimenti). Solo così si crea crescita economica, occupazione, distribuzione di reddito. Giornalisti economici (poche eccezioni) ed élite economiche e politiche partono dall’idea che quella macchina capitalista è la sola possibile e funzionerà sempre. Ma non è così, perché è andato via via crescendo il divario tra i profitti acquisiti e gli investimenti fatti nell’economia reale. Tanto da allarmare le organizzazioni internazionali (Fmi, Ocse, Ue), le banche centrali, gli esperti, gli Stati (anche la Cina) a causa della crescita (espressa nel famoso Pil) divenuta inesistente o ansimante o “recessiva”. Sono cresciuti enormemente i dividendi distribuiti dalle società anonime agli azionisti, è vero, ma quei dividendi non si trasformano o poco in reinvestimenti nell’economia reale. Dove va quindi a finire tutto quel denaro creato? Nei mercati finanziari. Qui le imprese acquistano le proprie stesse azioni, gonfiando i corsi borsistici e lucrandoci ancora (facendo contenti gli azionisti, in parte gli stessi dirigenti delle imprese). Oppure mettendo in atto gigantesche operazioni di fusioni-acquisizioni, moltiplicatesi con somme strabilianti negli ultimi tempi, le quali aumentano la concentrazione della proprietà del capitale, generando paurosi incontrollabili centri di potere che riducono a poca cosa o a impotenza gli stessi poteri statali. C’è stata una conseguenza “politica” di cui ci si rende conto a malapena: la moltiplicazione delle diseguaglianze. L’una, soprattutto: negli ultimi trent’anni, complici globalizzazione e grande crisi finanziaria, le classi medie dei paesi cosiddetti sviluppati non hanno registrato, e non solo per la statistica, aumenti del proprio reddito reale (o del proprio potere d’acquisto). Sono quelle classi medie che hanno reagito portando al potere negli Stati Uniti o in Italia o nei Paesi dell’Est o anche in Svizzera, i “populisti” (il popolo dimenticato contro le élite), che hanno scatenato la Brexit o la quasi-rivoluzione in Francia, chiedendo meno imposte (come le imprese), più reddito da consumare (di cittadinanza o altro), più spesa pubblica (e quindi più indebitamento). A questo punto il famoso “too big to fail” (troppo grande per fallire) assegnato alle grandi banche durante la crisi in nome della salvezza economica, è diventato globale. Il sistema capitalista costringe le banche centrali a diventare una sorta di agente statale di ultima garanzia, fornitore di risorse non generate dall’economia reale, che permettano il perpetuarsi del sistema traballante. Sia continuando a iniettare a profusione denaro, sia portandone il costo sotto zero, sia nutrendosi di debito. È in questo senso che alcuni, persino Nobel dell’economia, ritengono che stiamo ormai assistendo alla nascita di un nuovo sistema politico-monetario: il capitalismo comunista.
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