Homo Helveticus è il sesto libro pubblicato da Didier Ruef, fotografo attivo nello scenario internazionale, sia come documentarista, sia nella qualità di foto-giornalista. A Lugano, alcuni mesi fa, una selezione di sue immagini è stata presentata insieme alle altre premiate da Swiss Press Photo. Con questo ultimo libro Ruef ci rende conto di una ricerca dedicata alla scoperta del proprio Paese, lungo il corso degli anni, sempre al margine dei cliché e dei luoghi comuni, con l’ambizione di costruire un racconto che vada oltre il contesto immaginario da noi quotidianamente vissuto, consolidato nel nostro paesaggio mentale. La relazione tra fatto e contesto è la prima questione sulla quale egli ci risponde, intervistato nel corso dell’estate a Lugano. Cosa vuole dire che nella fotografia c’è sempre un fatto e non un contesto? «Nel caso della testa di Napoleone fotografata a Malvaglia, il fatto è che la testa fosse su un sasso. Io cerco di muovermi ai margini del contesto, vado a vedere cosa c’è dietro», spiega Ruef.
Quindi la fotografia registra un fatto che non è riconducibile a una spiegazione contestuale. Anche, e questa è la bellezza della fotografia. Si tratta di un linguaggio senza parole, aperto a tutti. Non c’è bisogno di una didascalia e infatti le foto del libro sono accompagnate solo da un luogo e una data attraverso i quali si entra in un racconto e in una certa Svizzera che è la mia Svizzera. Per me è stato interessante scoprire la simbologia che tutti abbiamo della Svizzera e reinterpretarla, rifacendo la mia Svizzera. Ecco perché sono convinto che questo libro parli tanto agli svizzeri. Se capisco bene il passaggio attraverso lo scatto rigenera il significato che non è quello dal quale saremmo potuti partire, viene dall’insieme delle immagini. In questo senso i fatti sono decontestualizzati e generano un nuovo contesto. Esatto, si parte da uno strato banale della quotidianità e si va a livelli diversi. Poi a me piace il fatto di poter giocare con diverse immagini. Per esempio? Immagini diverse costruiscono una storia più grande che ha un livello di complessità maggiore. Questo scollamento rispetto al contesto di origine, la ricerca di un confronto secco tra l’immagine e il mondo da cui quella immagine è tratta, ha delle implicazioni ironiche... Sì, è uno sguardo con tanta ironia e amore su questo Paese. Io sono nato e cresciuto a Ginevra e ho ricevuto un’educazione francese. Mi sono accorto che conoscevo poco la Svizzera; Ginevra è l’ultimo posto della Svizzera, è una città internazionale e multiculturale. Io, poi, dopo la formazione primaria sono stato in America. Lo studio della fotografia quindi avviene in America? Questo dopo. Prima sono tornato a Ginevra e ho studiato economia politica; poi di nuovo a New York, dove, provenendo da un bacino multiculturale europeo, ho scoperto la Documentary Photography e mi sono confrontato con sguardi diversi. Di Lee Friedlander apprezzavo il distacco, ma allo stesso tempo mi colpiva l’umanità di Robert Frank o Eugene Smith. Io sono un umanista; il mio lavoro è sempre legato all’uomo, nella società, nel suo mondo, nel suo ambiente. Da qui emerge l’idea del photo essay: una due tre foto e dire qualcosa. Cosa ci offre la serie narrativa? È fatta di fotografie forti ciascuna delle quali aggiunge un frammento ulteriore. La fotografia deve essere forte già da sola e poi deve diventare più forte quando si combina. Ecco perché è importante l’ironia e l’amore per la Svizzera. Beh, l’ironia è sempre affettiva. In generale, mi sembra di capire, si cerca di costruire qualcosa di nuovo attingendo alla cultura espressiva americana e restando ancorati alla matrice culturale europea? Se insistiamo troppo sulla composizione come è il caso di alcuni importanti autori europei, rischiamo di perdere l’elemento poetico. Rispetto alla bellezza formale è più importante il calore. In questo consiste, credo, il mio tributo alla tradizione americana: l’impegno di vedere cosa c’è sotto la polvere. Le fotografie di questo libro sembrano cercare sempre elementi marginali. Cosa interessa di una manifestazione o di un evento? Soprattutto il prima e il dopo perché lì la manifestazione non è sotto controllo, non c’è più lo show o la performance. Penso a quella fotografia in cui ci sono delle ballerine in maschera storica, oramai in ciabatte e arriva il ragazzo vestito da militare e scherza con loro. In quella situazione il ragazzo è lì per caso? Nell’immagine sembra darle un valore, un significato grottesco sulla dimensione militare... È così: a me interessa proporre un peculiare sguardo sul concetto di militare in un Paese che è convinto di essere il Paese militarmente migliore al mondo. E in quell’immagine diventa fondamentale la plastica delle ciabatte. È la modernità assurda che entra in un contesto non più riconoscibile. L’immagine fotografica si costruisce quindi utilizzando componenti anche casuali come il militare con le ragazze. Il risultato contesta una certa immagine della Svizzera... Sì e lo faccio con giustapposizioni di fatti, di incontri, di sensazioni, di cose che mi fanno ridere, anche. E poi la gente deve farsi la propria storia. Dal punto di vista della tecnica come sono costruite le immagini del libro? Tutto il lavoro è fatto con un sistema analogico. Ho usato la pellicola, la Tri-X 400 della Kodak. Vista la qualità della ripresa analogica, è stato importante poi ottenere una buona stampa per conferire al libro potenza. La poesia viene da lì, perché quando il libro è stampato bene la gente se lo gode. Perché? Perché è più forte, i neri sono più potenti, i grigi più ricchi, i bianchi non esplodono e la fotografia è così più forte. È più strutturata? Direi che ha più ricchezza. Avendo più ricchezza ha più informazioni e avendo più informazioni dà più emozioni. A me interessa l’emozione che induce le persone a muoversi dentro la fotografia. Li induce a chiedersi chi siamo e dove siamo.
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