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"La mia Svizzera, così media"
di
Gianfranco Helbling
75 anni, zurighese, Hugo Lötscher è romanziere, saggista, giornalista e viaggiatore instancabile. Da molti considerato l’erede di Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch, è uno degli scrittori svizzeri più famosi. Eppure è solo da poco che lo si può leggere anche in italiano. La prima traduzione di un romanzo di Lötscher, “L’ispettore delle fogne”, edita da Casagrande, è infatti del 2000. Ora Dadò propone “Se Dio fosse svizzero”, una raccolta di testi sempre in bilico sul filo del paradosso che danno un ritratto della Svizzera dipinto con uno humour disincantato e affettuoso. Nel 2005 poi di nuovo Casagrande ha in programma la traduzione del romanzo “Il mondo dei miracoli”. L’uscita di “Se Dio fosse svizzero” è l’occasione per una chiacchierata.
Che importanza ha per lei, Hugo Lötscher, pubblicare la traduzione di un suo libro in Ticino come ora con “Se Dio fosse svizzero”?
Molti dei miei titoli li ho già pubblicati in francese, ma in Francia, per cui ho cominciato ad essere letto in Romandia solo dopo esser passato da Parigi. Questo mi ha reso cosciente del fatto che ci si può definire un autore svizzero soltanto quando si viene letti anche al di fuori della propria lingua. In questo senso sono contento che ora arrivi anche il Ticino. È vero che arriva relativamente tardi. Avevo già passato i 70 anni quando è uscito il mio primo libro in italiano, ma ora mi sto rifacendo. Questo riconoscimento nel mio paese è per me molto importante.
Le culture svizzere vivono a fianco l’una dell’altra senza conoscersi?
Purtroppo è così. Mi ricordo di esser stato in una fondazione dell’Ubs e di essermi dovuto impegnare perché venisse finanziata una traduzione di Giorgio Orelli: anche lui aveva dovuto passare i 70 per essere finalmente tradotto in tedesco. Il problema quindi non è solo mio rispetto alla Svizzera italiana: anche noi in Svizzera tedesca ci rendiamo conto molto tardi di ciò che di interessante avviene nelle altre regioni linguistiche. Il problema è che la cultura letteraria svizzera è una cultura di traduzioni: non ci leggiamo mai in originale.
Lei ha detto che esiste una cultura svizzera: in cosa consiste?
Più che di una cultura parlerei di sentimento culturale svizzero. Per me è stato decisivo rendermi conto che accanto alla mia lingua ce n’erano altre (il francese, l’italiano, il romancio) che non dovevo necessariamente conoscere, ma che sapevo esistessero e con le quali in qualche modo mi sarei dovuto confrontare. Ciò mi ha reso consapevole del fatto che la mia lingua non è la prima, ma soltanto una accanto ad altre. Questa presa di coscienza è il sentimento culturale svizzero: è escluso fare una gerarchia con la propria cultura. Per questo la Svizzera è risparmiata dal dibattito sulla “Leitkultur”, la “cultura guida”, che imperversa oggi in Germania.
Il rispetto reciproco è una delle grandi conquiste della Svizzera?
Da un lato il rispetto, dall’altro il fatto che si sia per l’esistenza dell’altro anche se di questa esistenza non si sa necessariamente tutto. Abbiamo bisogno dell’altro, altrimenti non esistiamo più in quanto Svizzera.
A lungo si è detto che la Svizzera è un modello. Lei è d’accordo?
No, esito molto a dirlo. Un modello per cosa? Certo, possiamo dire che in Svizzera ci sono i retoromanci e ora arrivano persino i musulmani. Ma come reagiremmo se, poniamo, la metà della popolazione svizzera fosse di pelle nera? È vero invece che in Svizzera ci sono alcune esperienze politiche che potrebbero essere utili anche altrove. Per molto tempo ad esempio nella nostra storia abbiamo avuto, accanto ai cantoni, dei “paesi alleati” (“zugewandte Orte”) che avevano diritti e doveri ridotti rispetto alla Confederazione ma che non erano neppure territori sottomessi come i baliaggi: potrebbe essere forse una via da percorrere per integrare la Turchia nell’Unione europea. Non parlerei però di modello come di una soluzione ideale già pronta da copiare. Prenda il sistema scolastico: per molto tempo con una maturità ottenuta in un cantone non si poteva proseguire gli studi in un altro, e ancora oggi non si è uniformato il calendario scolastico. E quanto ai diritti delle donne non siamo mai stati e non siamo nemmeno oggi un esempio da seguire. Esiste però un comune sentimento democratico di fondo. Ma se penso alle polemiche sulla mostra di Thomas Hirschhorn a Parigi (cfr. riquadrato, ndr.) non parlerei neppure in quest’ambito di modello.
Perché gli intellettuali svizzeri devono sempre occuparsi del tema “Svizzera”, quasi come un’ossessione?
È vero che uno scrittore americano può dire quel che pensa di Bush o dell’Iraq, ma poi finisce per occuparsi d’altro che non gli Stati Uniti. Noi no. Credo che dipenda dalla mentalità che abbiamo nel nostro paese secondo cui da sempre allo scrittore si attribuisce un ruolo sociale, una motivazione politica. Questo comincia già con Albrecht von Haller, considerato il punto di partenza della letteratura di lingua tedesca in Svizzera, e Jeremias Gotthelf, le cui opere sono piene di intenti pedagogici. Si ha l’impressione che in primo luogo lo scrittore debba prendere posizione sulle questioni fondamentali che riguardano la sua patria e che poi, se vuole, può anche scrivere d’altro. Lo scrittore in Svizzera deve sempre giustificarsi. È capitato anche a me: ho fatto del giornalismo, per cui poi sarei stato libero di scrivere le mie inutili opere, ma in qualche modo avevo sempre l’impressione che mi si chiedesse di dare qualcosa alla Svizzera. È una vera e propria ossessione. In Max Frisch lo si vede bene: prima va a Roma perché la Svizzera non gli interessa più, poi torna qua e rimprovera i giovani di non occuparsi abbastanza del loro paese. Per tutta la vita Frisch si è consumato di dubbi nel suo rapporto con la Svizzera. Certo, rispetto ad altri paesi la Svizzera deve continuare a chiedersi che cosa la costituisca, e questo non è facile da definire.
È contento o addirittura fiero di essere svizzero?
Né l’uno né l’altro. È un dato di fatto che non mi fa sentire un eletto. Ma è anche vero che, a differenza di certi miei colleghi, non mi sono mai sentito nemmeno in dovere di scusarmi di essere svizzero. E ammetto: se in Germania sento parlare male del mio paese un po’ mi arrabbio…
Il suo rapporto con la Svizzera è cambiato nel corso degli anni?
Sì. Se penso agli anni della mia infanzia e della mia adolescenza, quelli della difesa spirituale del paese, è cambiato moltissimo. Nel frattempo nel paese s’è sviluppato uno spirito critico che ha fatto emergere nuove esigenze. Ma mi danno fastidio i colleghi svizzeri che incontro soprattutto all’estero e enfatizzano sensi di colpa o di vergogna che non mi pare debbano essere maggiori di quelli che provano gli intellettuali di altri paesi. Certo come intellettuale devo avere un rapporto critico con il mio paese, lo devo interrogare, rimetterlo in discussione, ma non nel senso di espiare una colpa: essere critici per me significa essere vivi e reagire a ciò che ci accade. È vero che oggi la frase più sovversiva che si possa dire in Svizzera è: «molto probabilmente apparteniamo alla media europea». Ma le cose stanno così: non siamo né molto meglio né molto peggio di tutti gli altri. E questo è oggi il mio rapporto con la Svizzera.
Tagli a Pro Helvetia grotteschi
Hugo Lötscher, che giudizio dà del voto del Consiglio degli Stati che per punire Pro Helvetia per aver promosso la mostra di Thomas Hirschhorn a Parigi vuole ridurle il credito di un milione all’anno?
È grottesco, ma soprattutto scandaloso. Così si punisce chi non merita di essere punito: lo dice anche Pascal Couchepin, che non è proprio un rivoluzionario. Il Ppd poi chiede le dimissioni della presidente di Pro Helvetia Yvette Jaggy, trasformando il tutto in una bega partitocratica. Per coerenza bisognerebbe prevedere che quando un parlamentare ridicolizza la Svizzera (e succede), gli si decurti la diaria. Tutto questo mi ricorda le stupide polemiche sulla partecipazione della Svizzera all’esposizione mondiale di Siviglia, quando il motto era “La Suisse n’existe pas”: in Francia diversi anni prima era di moda lo slogan “La femme n’existe pas”, ma nessuno ha protestato dicendo «no, esiste, ne ho una a casa». Anche allora trovammo il modo di essere ridicoli e grotteschi.
Si tratta solo di episodi di stupidità o c’è dell’altro in profondità?
Mi pare siano segni che in qualche modo la destra vuole contrastare con misure radicali la società multiculturale, aperta, critica. Il tutto per considerazioni di politica partitica. E questo mi pare pericoloso.
La nostra classe politica è incolta?
Non c’è una gran cultura in giro. E la formazione non è più considerata una qualità di cui vantarsi. Se il partito liberale fa così tanta fatica a trovare un presidente è un fatto grave, che indica che i problemi della politica non sono più i problemi più importanti del paese. Oggi l’economia ha assunto una posizione dominante a spese della politica e ciò è pericoloso. Ma la politica può essere così emarginata perché i partiti pensano in maniera ideologica e non concreta: affrontassero le questioni economiche con più concretezza, l’economia non avrebbe così facilmente partita vinta.
È una classe politica debole?
È una classe politica che si è indebolita da sola.
Pubblicato il
17.12.04
Edizione cartacea
Anno VII numero 51-52
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