La malattia del socialismo

di Pietro Martinelli
ingegnere

«I socialdemocratici e gli altri partiti della sinistra stanno attraversando un momento difficile. Il breve periodo in cui questi partiti hanno dominato verso la fine degli anni novanta ora sembra veramente lontano…». Queste  frasi rappresentavano l'inizio di un articolo dal titolo "La malattia che frena il socialismo in Europa" apparso su la Repubblica del lontano 23 novembre scorso a firma Antony Giddens, noto sociologo inglese che ha influenzato le politiche di Bill Clinton e Tony Blair. A conferma della sua diagnosi Giddens citava le sconfitte in Scandinavia, Danimarca, Francia e Germania, le incertezza legate alla successione di Blair in Gran Bretagna e le divisioni e la litigiosità interna al centro-sinistra in Italia. Credo che oggi, malgrado la consolazione della vittoria di Zapatero in Spagna lo scorso mese di marzo favorita certamente dalla sua bella battaglia laicista, dopo gli esiti elettorali in Italia e nelle amministrative inglesi, dopo i disastri nelle città di Roma e di Londra, il suo giudizio sullo stato dei partiti della sinistra in Europa sarebbe probabilmente ancora più negativo. Giddens credo non si interessa della Svizzera e del Ticino, ma, se lo facesse, potrebbe trarne ulteriore convincimento che a sinistra qualcosa non funziona. La causa principale di questa crisi secondo l'autore di quell'articolo, è da ricercare nella «mancata modernizzazione», nel «conservatorismo» della sinistra, nella sua incapacità di modificare l'ordine delle cose per meglio adattarlo alla realtà contemporanea dell'economia e della società caratterizzata dal mercato globale, dal cambiamento demografico e dai rischi ambientali. Inoltre, secondo Giddens la sinistra si è dimostrata «incapace di sviluppare un'idea progressista di identità nazionale». Ha commesso l'errore di sostenere che «il multiculturalismo doveva prevalere sull'impegno verso il conseguimento degli obiettivi della nazione», mentre è vero il contrario perché «le differenze culturali si conciliano meglio all'interno di una struttura di ideali comuni e di una struttura di diritto condivisa (e rispettata, ndr) da tutti».
Ora non credo che le riflessioni di Giddens  non siano presenti nella sinistra. Anzi lo sono a tal punto da permettere alla destra (Tremonti) di sfottere i "modernizzatori" della sinistra (Veltroni e compagni) definendoli spregiativamente "mercatisti", approfittando di un momento di giustificato ripensamento della globalizzazione che tuttavia potrebbe riaprire la porta al protezionismo dei più forti a cominciare proprio dagli Stati Uniti di Georg W. Bush, paese guida del liberismo elastico a proprio uso e consumo. E di permettere dalle nostre parti, al di qua e al di là del confine, alle leghe di ergersi a rappresentanti delle "comunità" locali, promettendo tutto e il contrario di tutto. Comunità che sono un po' l'ultimo rifugio di molte persone spaventate dalla velocità dei cambiamenti in atto e dall'insicurezza che questi cambiamenti generano a tutti i livelli.
Il problema principale della sinistra sono invece le divisioni, che la paralizzano, che la rendono incapace di esprimere una politica coerente, di rispondere «ai problemi concreti con progetti concreti» (Massimo Cacciari). Di creare nuova cultura politica. Conseguenza delle divisioni è la ricettività con la quale una parte importante della sinistra fa proprie le critiche che la destra rivolge ai "modernizzatori" di sinistra accusandoli di aver tradito i propri ideali per ingenuità o per ambizione personale. Ricettività favorita dal fatto che «il mercato non agisce in maniera neutra, ma è dominato da potentati finanziari e industriali il cui obiettivo è di convogliare le risorse a loro prevalente beneficio invitando i lavoratori a non "pretendere" irresponsabilmente oggi quel miglioramento che viene affidato al domani» (Massimo L. Salvatori). In poche parole favorita dal fatto che il mercato di oggi è ancora più ingiusto di quello di ieri.
Chiudersi a riccio, isolarsi tuttavia non serve né alla sinistra, né al paese: può portare solo al declino. Può darsi che il riformismo di sinistra, come suggerisce Eugenio Scalfari, sia minoritario. Ma, continua Scalfari, «deve aver vocazione maggioritaria e deve operare nel senso della storia programmando il futuro». Deve cercare di governare il cambiamento in Europa come in Italia (forza Veltroni), come in Ticino (forza Manuele).

Pubblicato il

09.05.2008 13:30
Pietro Martinelli
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