Ci sono fatti che, all’improvviso, fermano l’apparentemente inarrestabile corsa dell’oggi verso il domani: tutto a un tratto, la storia frena e il passato con un balzo felino acchiappa il presente. L’assassinio di monsignor Juan Gerardi Conedera, vescovo ausiliare di Città del Guatemala, è uno di questi. La mattina del 27 aprile 1998, guardando alla televisione l’immagine del suo cranio sfracellato da un mattone, molti guatemaltechi da un momento all’altro sono ripiombati in un passato che pensavano di essersi lasciato per sempre alle spalle. Gli Accordi di pace del 29 dicembre 1996 che misero fine a 34 anni di guerra civile avrebbero dovuto essere una garanzia contro il ritorno dei crimini politici. E invece ci si rese conto che non era così. Da quel giorno «nulla sarebbe più stato come prima» ha scritto Susanne Jonas in Of Centaurs and Doves, un’accurata analisi della storia recente del paese centroamericano.
Gerardi, vescovo ausiliare di Città del Guatemala, è stato trovato morto nel garage della casa parrocchiale di San Sebastián, nel centro della capitale, la mattina del 27 aprile 1998. Due giorni prima aveva presentato il rapporto Guatemala: Nunca más, frutto del progetto diocesano “Recupero della memoria storica”. Con quel documento il vescovo – che dagli anni più bui della guerra si era schierato a fianco delle popolazioni indigene emarginate e massacrate – osava sfidare il potere militare, un potere fattosi più discreto ma rimasto pressoché intatto nella sua forza dopo la firma della pace fra governo e guerriglia di ispirazione marxista. Gerardi aveva detto – facendo nomi e cognomi – che esercito e paramilitari si erano macchiati della stragrande maggioranza delle atrocità costate la vita a più di 200 mila persone e la fuga o l’esilio a oltre un milione di guatemaltechi, in buona parte indigeni. Nessuno prima di allora si era spinto tanto lontano.
Anche Celvin Galindo si è spinto su un terreno minato. Quando nel gennaio del 1999 assunse la responsabilità dell’indagine volta a chiarire dinamica e responsabilità del crimine, sapeva che sarebbe andato incontro a dei rischi. «La mia linea investigativa era quella del movente politico, un’ipotesi che fino a quel momento non era stata approfondita» spiega il procuratore nell’intervista concessa ad area durante un suo recente passaggio in Svizzera in occasione della giornata internazionale dei diritti dell’uomo. Le prove raccolte da Celvin Galindo, costretto all’esilio nell’ottobre del ’99 (vedasi anche box), furono fondamentali nell’indagine svolta dal suo successore Leopoldo Zeissig. Il procuratore Zeissig – a sua volta costretto a lasciare il paese – promosse l’accusa nel processo che il 7 giugno 2001 portò alla condanna a 30 anni di reclusione ciascuno del generale in pensione Byron Disrael Lima Estrada, di suo figlio Byron Lima Oliva e di Obdulio Villanueva (anch’essi militari, il secondo nel frattempo è stato ucciso in carcere) e a 20 anni del sacerdote Mario Orantes. Annullata in appello con una decisione sospesa in seguito dalla Corte Suprema, la sentenza attende ora di essere confermata o meno in secondo grado.
Celvin Galindo, perché dovette lasciare il Guatemala?
Cominciai ad essere tenuto d’occhio subito dopo aver reso nota alla stampa l’ipotesi che stavo approfondendo. Il telefono dell’ufficio, quello privato, il cellulare erano controllati. Le minacce si intensificavano man mano che acquisivo prove che vincolavano al crimine membri dello Stato maggiore presidenziale (Emp, servizio di informazione militare implicato in numerosi casi di violazione dei diritti umani in Guatemala durante il conflitto armato, ndr). A un certo punto fui costretto a far capo a delle guardie del corpo. Quando cominciai a trarre delle conclusioni ci fu un salto di qualità. Si passò alle minacce dirette.
*Inizio**Di che tipo?
Essenzialmente la presenza di militari nelle vicinanze della casa e le minacce di morte al telefono. Mi chiamavano e mi dicevano: “Sequestreremo uno dei tuoi figli”. Conoscevano il loro nome, quello della scuola dove studiavano, sapevano a che ora uscivano di casa e a che ora rientravano. Al telefono mi dicevano anche che dovevo lasciare il caso, altrimenti avrei fatto la fine di monsignor Gerardi. Negli ultimi tempi, infine, ci furono degli avvertimenti concreti. Ciò che mi spinse a lasciare il paese accadde un sabato sera. Al ritorno da una cena con tutta la famiglia a casa dei suoceri, entrai nella stanza e sopra il letto trovai una corona di fiori. Dieci minuti dopo suonò il telefono. Una voce mi chiese se avevo trovato il regalo. “Lascia il caso e vattene all’esilio se non vuoi che la usiamo al tuo funerale” mi dissero.
Come si è sentito in quel momento?
È stato impressionante. Erano entrati senza rompere né porte né finestre, come se fosse casa loro. Allora mi resi conto che, benché seguito da una scorta, loro controllavano tutte le mie attività. La corona è stata un messaggio chiaro: mi davano ancora una possibilità di scelta. Così decisi di andarmene.
Quando lasciò il paese?
Informai subito le Nazioni Unite (Minugua, la Missione di verifica degli accordi di pace delle Nazioni Unite in Guatemala, ndr) della mia situazione. Quando presentai la denuncia, i funzionari della Minugua mi dissero che da tre mesi avevano pronti i documenti necessari affinché potessi lasciare il paese e andare in Germania. Io non ne sapevo nulla, ma loro – conoscendo il tipo di indagine che stavo svolgendo – sapevano che un giorno o l’altro sarei stato costretto a mollare il caso e a lasciare il Guatemala. Così il lunedì denunciai le minacce ai mezzi di comunicazione e giovedì 7 ottobre me ne andai.
A che punto erano le indagini quando dovette andare in esilio?
“Ci vorranno anni”
Avevamo identificato gli autori materiali del crimine, e stavamo risalendo ai mandanti. Sapevamo che le menti dell’assassinio di monsignor Gerardi stavano nell’Emp, come è emerso successivamente nel corso del processo, ma era estremamente difficile dimostrare chi aveva ideato il crimine, chi lo aveva pianificato e organizzato. In quel momento la priorità era smascherare gli esecutori.
I nomi dei mandanti non sono tuttora noti?
No. I nomi non sono mai usciti. Nella sentenza di primo grado venne ordinata un’indagine all’interno dell’Emp per determinare i mandanti dell’assassinio. A causa dei numerosi ricorsi la sentenza non è ancora definitiva, per cui quest’indagine non è stata fatta e i miei due successori incaricati del caso non hanno potuto avanzare.
Dove stanno le maggiori resistenze alla risoluzione definitiva del caso?
Questo è un caso estremamente complesso. Da più parti c’è stata manipolazione con lo scopo di seminare dubbi nell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Il governo dell’epoca (quello di Alvaro Arzú, 1996-2000, che firmò gli accordi di pace con la guerriglia riunita nell’Unidad revolucionaria nacional guatemalteca, ndr) cercò di insabbiare il caso dimostrando di non avere la volontà politica di arrivare fino in fondo. Come procuratore era difficilissimo penetrare nelle strutture oggetto dell’inchiesta: non ti presentavano mai le cose come stavano, cercavano di sviarti. Si tratta di una pratica costante che ha l’obiettivo di lasciare impuniti i crimini commessi.
Faccia un esempio di queste manipolazioni.
Durante il processo della primavera 2001 è stato dimostrato che un fratello del presidente Arzú aveva reso visita al vescovo successore di Juan Gerardi per proporgli uno scambio: la liberazione del sacerdote Mario Orantes a cambio dell’impegno dell’Ufficio dei diritti umani della diocesi a non coinvolgere né il governo né l’esercito nel crimine. Questo fatto, provato – come lo è stato il coinvolgimento nell’assassinio Gerardi delle alte sfere dell’esercito e dell’Emp – dimostra che c’è stata la volontà di coprire delle responsabilità politiche.
Quale speranza nutre in un chiarimento definitivo del caso?
Credo che ci vorranno anni. È l’esperienza a dirlo, basti pensare ad esempio all’assassinio di Myrna Mack (1) che dopo oltre 13 anni non ha ancora una sentenza definitiva.
L’impunità legge di Stato
I casi Gerardi e Mack dimostrano che la giustizia in Guatemala fa un passo avanti e due indietro. È d’accordo?
Sì. In Guatemala ci sono tanti giudici e procuratori che lottano per mantenere la loro autonomia nelle indagini criminali. Però ce ne sono anche tanti altri che si piegano alla volontà di settori del potere. Lo abbiamo visto più volte negli ultimi anni. L’esempio più clamoroso è quello dell’alterazione della legge sulle bevande alcoliche nella quale era coinvolto il presidente del parlamento ed ex candidato presidenziale Efraín Ríos Montt (2): un anno di indagini e poi in quindici minuti il procuratore e il giudice archiviarono il caso.
E per quanto riguarda le massicce violazioni dei diritti umani commesse durante la guerra civile?
Finora non c’è stata nessuna sentenza. Ci sono un sacco di denunce, ma pochissime indagini serie.
Helen Mack, dopo la sentenza che ha assolto uno dei mandanti dell’assassinio di sua sorella Myrna, ha detto: «Il nostro paese si profila come una nazione dove gli organi giudiziari continuano ad essere inoperanti, deboli e disposti a garantire impunità ai gruppi di potere che li tengono imprigionati». Lei condivide?
Sì, la verità è questa. I guatemaltechi stanno perdendo la fiducia nel sistema giudiziario. Non per niente Rigoberta Menchú ha dovuto cercare giustizia fuori dal paese. Si fa vieppiù forte la convinzione che le violazioni dei diritti umani commesse nel passato non possono essere giudicate da tribunali guatemaltechi. E anche se ci fosse la volontà di farlo da parte di giudici e procuratori onesti, le minacce, l’ostilità e la repressione renderanno difficilissimo il loro compito.
L’impunità ha fatto sì che la gente abbia cominciato a farsi giustizia da sé. Come interpreta l’aumento del numero dei linciaggi?
La sfiducia nel sistema giudiziario è un fattore, certo. Ma questo fenomeno – che si verifica soprattutto nelle zone rurali e remote del paese – è alimentato anche da una cultura della violenza rimasta dopo la fine della guerra civile. Durante il conflitto armato, la violenza era il castigo “normale” che militari e paramilitari infliggevano alle persone sospettate di simpatizzare con la guerriglia. Non per nulla in molti di questi casi di linciaggi sono stati coinvolti – in maniera diretta o indiretta – ex patrulleros (membri delle Pattuglie di autodifesa civile, organi paramilitari responsabili di numerose atrocità durante il conflitto armato, ndr).
Un’opportunità
Il Guatemala avrà un nuovo presidente il 28 dicembre. Con Oscar Berger o Alvaro Colom potranno aprirsi nuovi spazi di manovra nella risoluzione dei casi più eclatanti – gli omicidi di monsignor Gerardi e di Myrna Mack, i massacri di Las Dos Erres, Río Negro, ecc. – di violazione dei diritti umani commessi in Guatemala?
Voglio essere ottimista. Un passo avanti l’abbiamo già fatto nelle scorse settimane rifiutando di rispondere alle aspirazioni presidenziali di Efraín Ríos Montt. Con i due candidati in lizza non staremo certo peggio di quanto lo siamo stati negli ultimi quattro anni. Credo che non si potrà superare il livello di repressione raggiunto durante l’amministrazione del presidente Alfonso Portillo (2000-2004) (3). Il nuovo presidente avrà una grande opportunità: riabilitare il paese di fronte alla società civile guatemalteca e alla comunità internazionale, facendo sì che questi crimini non restino impuniti.
(1) Myrna Mack, antropologa, venne uccisa a pugnalate nel settembre del 1990 a Città del Guatemala. Stava documentando le strategie controinsurgenti dell’esercito nelle zone indigene. Nell’ottobre del 2002, dopo anni di battaglie legali, uno degli autori intellettuali del crimine (ordito in seno all’Emp) venne condannato a 30 anni di carcere. Il 7 maggio scorso fu scagionato in secondo grado. Contro la sentenza assolutoria è stato interposto un ricorso di cassazione non ancora evaso.
(2) Presidente de facto del Guatemala dal marzo ’82 all’agosto ’83 nel periodo più sanguinoso della guerra civile, contraddistinto da un’intensificazione della politica cosiddetta della “terra bruciata” che ha cancellato dalla carta geografica centinaia di villaggi indigeni e la loro popolazione.
(3) L’ultimo episodio di violenza contro attivisti dei diritti umani durante l’amministrazione Portillo è degli scorsi giorni. Il sacerdote José María Ruiz Furlan – “padre Chemita”, 69 anni, noto per il suo impegno nella difesa dei diritti fondamentali e considerato l’erede morale di Juan Gerardi – è stato assassinato a colpi di arma da fuoco a pochi metri dalla sua parrocchia nella zona 5 della capitale. Negli ultimi mesi aveva duramente criticato il governo di Alfonso Portillo per aver ostacolato il chiarimento delle violazioni dei diritti umani commesse nel passato. |