Sono sempre più numerosi gli scandali finanziari che colpiscono grandi imprese e che si riversano come una doccia gelata su lavoratori e investitori. La lista è lunga, si parte dai colossali crolli di Enron e Worldcom negli Stati Uniti fino a giungere ai casi nel vecchio continente come Lernout and Hauspie in Belgio, Ahold in Olanda, Kirch in Germania, Skandia in Svezia e Parmalat in Italia. Il recente caso di Adecco dai contorni ancora oscuri fa temere il peggio anche per la Svizzera, già scossa dal caso Swissair. Area ha interpellato Alvaro Cencini, economista e ricercatore, e Sandro Lombardi, presidente dell’Associazione delle industrie ticinesi (Aiti), per cercare di capire cosa si cela dietro a questi tonfi sempre più frequenti e di dimensioni, fino a poco tempo fa, inimmaginabili. Lombardi punta il dito su un sistema bancario che continua ad elargire crediti a una «minoranza di managers disonesti o folli». Per Cencini il nocciolo della questione è da cercare altrove, in una «struttura disordinata di un’economia che porta ad una sovraccumulazione del capitale».
Professor Cencini ritiene che si debba avere fiducia nell’agire degli attuali “top managers”?
Non credo si possa esprimere un giudizio negativo e definitivo sull’intera categoria. È chiaro che vi sono singoli casi di persone che, per incompetenza o per lucro, cagionano danni all’intera collettività ma non trovo basi per affermare che oggi vi sia più disonestà di ieri. Gli incapaci e i malintenzionati si trovano ad ogni livello della società. Ritengo invece che vi siano ragioni per supporre che le competenze si affinino sempre più.
Se la colpa non è dei “top managers” è forse da ricercare ad altri livelli della società? Banchieri e revisori contabili sono anch’essi chiamati a rispondere quando esplodono gli scandali finanziari.
La mia risposta non può essere diversa da quella di prima. Banchieri e contabili fanno il loro mestiere, probabilmente alcuni di loro l’hanno fatto male ma io credo che i problemi strutturali del sistema economico, perché è di questo che si tratta, non siano da ricercare nel comportamento dei singoli agenti economici coinvolti.
Ma allora a cosa sono dovuti questi crolli di imprese che fino a un momento prima parevano basate su solide fondamenta? Non trova preoccupante il fatto che gli scandali giungano a grappolo in questi ultimi anni?
La mia risposta non sarà ovvia. Certo, credo che ci si debba preoccupare quando grosse imprese vanno a gambe all’aria, ma non ci si può fermare ad una superficiale analisi di malcostume della società o di particolari categorie di agenti economici. L’attuale sistema monetario, sia nel circuito nazionale che internazionale, conosce disordini che sfociano nelle crisi che stiamo vivendo.
Cosa intende per “disordini del sistema monetario”?
È difficile entrare nei dettagli dell’analisi in questa sede, ma credo che l’idea centrale si possa riassumere dicendo che purtroppo ancora oggi non è rispettata la vera natura della moneta. Abbiamo un sistema che in cui il capitale si è accumulato a un ritmo crescente, capitale che deve ovviamente essere remunerato. L’accumulazione del capitale ha raggiunto livelli tali da rendere sempre più difficile la sua remunerazione. Quando il tasso d’interesse naturale (ossia il rapporto tra l’interesse prodotto nel sistema e il capitale accumulato) si abbassa e raggiunge quello di mercato (cioè quello fissato dalle banche) il sistema entra in crisi. Le imprese sono costrette a ridurre i costi se vogliono essere in grado di pagare gli interessi sul capitale e finanziare nuovi investimenti. Da una parte il sistema economico abbassa il tasso di interesse di mercato (la Banca nazionale Svizzera lo ha portato attorno allo 0,25 per cento, ndr) per mantenere un differenziale positivo con quello naturale. D’altro canto le imprese riducono i costi, essenzialmente quelli salariali, per raggiungere un miglior risultato d’esercizio. Sono sempre più numerose le imprese che producono laddove il costo della manodopera è più basso, per alcune di esse è un’esigenza imperativa.
Quale è la differenza fra tasso di interesse naturale e tasso di mercato?
È importante capire che l’interesse è un reddito legato al capitale, derivato cioè da una produzione in cui il lavoro umano è coadiuvato dai cosiddetti beni-strumentali. Ora, la produzione di tali beni richiede la formazione di un risparmio macroeconomico (che prende la forma dei profitti) e il suo investimento. L’interesse è la compensazione per questo risparmio iniziale. L’interesse stesso sfocia nella produzione di beni-interesse. In un sistema economico capitalistico, la produzione di beni-interesse ha però un limite, dovuto alla necessità di produrre altresì beni di consumo e beni d’investimento. Una volta raggiunto il limite massimo d’espansione, la produzione di beni-interesse non può più aumentare e questo porta inevitabilmente alla diminuzione del rapporto tra l’interesse totale formato nel sistema e il capitale accumulato, il tasso naturale d’interesse, appunto. Il tasso d’interesse di mercato, invece, è quello che si determina sul mercato finanziario a partire dal tasso di sconto fissato dalla banca centrale. Nel nostro sistema l’accumulazione di capitale ha raggiunto un limite al di là del quale il processo di accumulazione non potrà più svolgersi allo stesso ritmo di prima, con le conseguenze negative sul livello e sulla qualità dell’impiego che lei può ben immaginare
A suo parere esiste quindi una pressione sul sistema economico esercitata da una “patologia” del sistema monetario.
I nostri studi ci hanno portato a questo risultato. Esistono anche delle soluzioni, ma ci deve essere la volontà di discuterne. Ho l’impressione che industriali e banchieri condividano il risultato raggiunto dall’analisi teorica. Chi vive nel mondo degli affari si rende perfettamente conto del fatto che la crisi è di natura monetaria. Gli scandali finanziari sono una faccia della medaglia di questo fenomeno.
Sandro Lombardi, è difficile essere direttore d’azienda oggi?
Dopo tutti i recenti scandali finanziari potrebbe sembrare paradossale affermarlo, ma lo è, essere imprenditore o manager è sempre più difficile. Gli azionisti delle grandi imprese misurano le capacità di direzione in base al dividendo che ricevono. Le pressioni crescono sempre più.
I recenti avvenimenti come Parmalat e il caso Adecco vedono coinvolti soprattutto piccoli investitori, che perdono un patrimonio in poche ore, e i lavoratori che perdono improvvisamente il proprio impiego. Le sembra normale?
Certamente no, se io avessi avuto delle azioni Adecco non avrei potuto far altro che venderle. Sono stupito dal fatto che una multinazionale del genere annunci con tale anticipo di non essere in grado di produrre i conti. Delle azioni me ne sarei liberato immediatamente anche io, chiaramente chi le acquista è disposto a farlo solo ad un prezzo più basso. Ciò che mi lascia davvero perplesso è il fatto che di fronte a scandali, come quello di Parmalat o Cirio, le responsabilità non sono solo del singolo manager disonesto.
Se le colpe non sono solo del manager dove vanno cercate?
Supponiamo che una minoranza di direttori d’impresa, magari disonesti o che hanno perso la testa, si trovino in una condizione debitoria. I primi cercheranno di nascondere il buco finanziario per trarne profitto personale, i secondi magari per risollevare le sorti dell’azienda con una serie di strategie irrazionali. Per far ciò dovranno nuovamente indebitare l’impresa. Non posso credere che le banche e il sistema creditizio che ha finanziato Parmalat fossero all’oscuro della situazione. Il ragionamento malsano sta nel fatto che le banche, consapevoli dei rischi, cerchino comunque di trarre profitto prestando danari con alti tassi d’interesse. Sono esperienze che ho vissuto sulla mia pelle e sono atteggiamenti che non posso assolutamente condividere. Il disonesto e il folle hanno modo di poter continuare ad agire. È un danno d’immagine enorme per banche, revisori contabili e imprenditori.
Non trova strano il fatto che la sorte di imprese e lavoratori dipendano da mancanza di certezze nel trattare affari? Una multinazionale rimanda la pubblicazione dei conti e improvvisamente ci troviamo più poveri.
È il mondo che ci siamo creati. Bisogna risollevare la fiducia in generale, solo così gli agenti economici sapranno distinguere fra aziende “buone e cattive”. Siamo noi come parte del sistema che dobbiamo reagire, non sono solo quei manager scriteriati che ci fanno stare male. C’è bisogno di maggior trasparenza. Se vi sono altri sistemi che si possono adottare ben vengano, io finora non ne ho trovati.
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