L'editoriale

Per far fronte a una situazione finanziaria definita “delicata” (nonostante l’ottima salute delle finanze pubbliche elvetiche), il Consiglio federale ha annunciato per i prossimi anni un giro di vite e sta preparando una serie di misure di risparmio. Una di queste prevede tagli alle rendite per le vedove, sulla cui pelle il governo conta di risparmiare un centinaio di milioni di franchi all’anno. Ancora una volta, oltretutto in contemporanea con un aumento del budget dell’esercito di 600 milioni e con politiche fiscali sempre più favorevoli ai grandi operatori economici, si chiamano alla cassa le persone più fragili e in difficoltà.

 

Ma l’aspetto più paradossale è il contesto in cui nasce questa ipotesi di riforma delle rendite di vedovanza, che è quello della necessità di superare una disparità di trattamento tra uomini e donne, oggetto lo scorso ottobre di una condanna della Svizzera da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu).


In base al diritto vigente infatti, gli uomini vedovi ricevono una rendita solo fino al compimento del 18esimo anno del figlio più giovane mentre le vedove la percepiscono anche con figli già adulti (e anche senza figli se hanno più di 45 anni). Un sistema «discriminatorio», afferma la Corte di Strasburgo in una sentenza definitiva e giuridicamente vincolante, cui la Svizzera è tenuta a conformarsi. In attesa della necessaria modifica della legge (che richiede un certo tempo), Berna ha stabilito una regolamentazione transitoria che impone da subito di trattare i vedovi e le vedove con figli in modo identico. Tutto bene dunque? Non proprio.

 

Perché la riforma legislativa che il Governo sta preparando, invece di adattare le rendite dei vedovi a quelle oggi garantite alle vedove, va nella direzione opposta, verso un’armonizzazione al ribasso che di fatto va a peggiorare la situazione per le vedove: per esempio cancellando il diritto alla rendita se non hanno figli e limitandolo nel tempo per le madri (così come per i padri), fino alla fine di una formazione e al massimo fino ai 25 anni del figlio minore. È in questo modo che la maggioranza borghese del Consiglio federale intende eliminare una disparità di trattamento. E così una vittoria contro la discriminazione degli uomini, ottenuta grazie al ricorso alla Cedu da parte di un vedovo appenzellese, viene utilizzata per tentare di peggiorare la condizione delle donne che vivono la disgrazia di perdere il marito o il partner.


Governo e parlamento ci provarono già una ventina di anni fa con una riforma dell’Avs (poi bocciata in votazione popolare nel 2004) che prevedeva di escludere le donne senza figli dal diritto a una rendita di vedovanza. E ora tornano alla carica con un nuovo progetto di smantellamento, ancora da definire nei dettagli ma nel segno di una “parità al ribasso”. Una “logica” che ricalca quella che ha purtroppo portato all’innalzamento dell’età pensionabile delle donne a 65 anni nel quadro della riforma AVS21, approvata il 25 settembre scorso di strettissima misura in votazione popolare. Probabilmente anche grazie alle false promesse delle forze politiche borghesi, che come contropartita “offrivano” alle donne un miglioramento delle rendite pensionistiche del secondo pilastro nell’ambito della riforma della Legge sulla previdenza professionale (Lpp). Una riforma che il Parlamento proprio in questi giorni sta per varare in via definitiva (salvo sorprese dovrebbe essere approvata in votazione finale il 17 marzo), ma in cui di quella promessa non c’è più la minima traccia. E che dimostra come la maggioranza politica di questo paese si rifiuti di affrontare la situazione sempre più degradata cui sono costrette pensionate e pensionati dopo una vita di lavoro. 

Pubblicato il 

08.03.23
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