La logica della disuguaglianza non regge più

Quando si affrontano alcuni temi, come ad esempio il tema del salario minimo, può essere utile accostare notizie, fatti, studi, verifiche capitate o che capitano  altrove, per farsi una ragione. Facciamo tre esempi.
1)  Una notizia di una settimana fa, particolare ma significativa. In Francia esiste il salario minimo legale (noto come “smic” ,“salario minimo interprofessionale”, introdotto già nel 1950). Il presidente dell’associazione mantello degli imprenditori (equivalente  a Economisuisse) propone di ridurlo con il pretesto di «facilitare l’accesso al lavoro dei giovani». Chi l’ha preceduto in quella carica, una signora, ha però il coraggio di criticarlo: «Proporre un salario inferiore allo smic è una logica schiavista». A una ex-presidente della società dei padroni scappa quindi una constatazione che è di per sé un’analisi tremenda del mondo del lavoro: si avanzano pretesti facili per far passare una logica di sfruttamento.


2) I tempi cambiano anche per le idee economiche. L’idea che l’aumento delle ineguaglianze tra i redditi era il prezzo da pagare per una crescita vigorosa ha avuto largo corso negli ultimi decenni. Tra eguaglianza ed efficacia, contava solo la seconda. Certo, ci sono ragioni etiche o politiche per contrastare le ineguaglianze crescenti, ma hanno un costo economico che mette a repentaglio la prosperità generale. Con questo argomento si sono quindi giustificati: la compressione  dei salari per la competitività, la pressione sui lavoratori per la maggior produttività, il precariato per la flessibilità, l’individualizzazione del lavoro. Oggi ci si sta accorgendo che quel dogma imposto a tutti è una rovina. Le ineguaglianze, ci dicono e dimostrano economisti non inscatolati e ora ci ripetono anche organismi internazionali in analisi appena apparse (v. Fondo monetario internazionale), sono l’odierno cancro della crescita, che frenano o fragilizzano. Paralizzano la domanda o rafforzano solamente i potentati della finanza i quali generano l’instabilità finanziaria che stiamo subendo. Perseverando nelle diseguaglianze di reddito, continuando a mortificare i salari medi-bassi, non stabilendo dei salari minimi legali, si  demolisce anche  la mitica produttività:  sia perché si  ostacola l’accesso di tutti  alla formazione, all’educazione, alla salute, sia perché si corrode il consenso sociale necessario per affrontare politiche economiche sostenibili. È quindi lapidaria la conclusione cui arriva l’analisi del Fondo monetario internazionale (v. Redistribution, Inequality and Growth, IMF 2014): «È un errore concentrarsi sulla crescita senza occuparsi della ripartizione dei redditi». Insomma, equità ed efficacia vanno di pari passo. Forse  non è un caso che dopo queste  svolte si stia estendendo in molti stati ( v. i casi di Germania, Regno Unito, Stati Uniti e persino Cina) l’introduzione o l’aumento di un salario minimo legale.


3) Quando di parla di salario minimo uno degli argomenti avanzati per contrastarlo è il suo impatto negativo sul lavoro. In un’analisi storica appena apparsa si  trova il caso del 1995 quando Bill Clinton  propose di aumentare del 20 per cento il salario minimo (negli Stati Uniti esiste dal 1939). Un premio Nobel per l’economia, Gary Becker,  sostenne allora, dando voce agli imprenditori, che « aumentare il salario minimo come vuole Bill Clinton  creerà disoccupazione perché la produttività non sarà più sufficiente per giustificare i costi agli occhi degli imprenditori…». Tre anni più tardi due economisti di Harvard dimostrarono puntigliosamente l’assenza di ogni impatto negativo sull’occupazione, che era addirittura aumentata.

Pubblicato il

02.05.2014 14:49
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