Invocando un alto rischio di suicidio, la giustizia britannica ha rifiutato di estradare Julian Assange verso gli Stati Uniti. Il fondatore di Wikileaks rimane però in carcere fino al termine della procedura d’appello richiesta da Washington. L’uomo è in detenzione da oltre un anno. Non accordargli la libertà su cauzione dopo tutto questo tempo rende la sua detenzione arbitraria. La decisione di non estradarlo è giusta, ma non assolve il Regno Unito dall’essersi impegnato in una procedura motivata da considerazioni politiche, seguendo gli ordini degli Stati Uniti. Le accuse rivolte all’australiano, che ha avuto il coraggio di pubblicare dei documenti che implicano gli Stati Uniti in crimini di guerra, non avrebbero mai dovuto essere prese in considerazione. Perché in questo caso, coloro che hanno perseguito Assange come un criminale incallito sono gli stessi che hanno commesso crimini rimasti impuniti fino ad oggi. Il risultato della caccia all’uomo implacabile da parte degli Stati Uniti contro questa persona: un processo che ha messo la libertà dei media sul banco degli accusati. La richiesta di estradizione degli Stati Uniti si fonda su delle accuse che derivano direttamente dalla pubblicazione di documenti classificati segreti, nell’ambito del lavoro giornalistico di Julian Assange con Wikileaks. La pubblicazione di questi documenti costituisce il fondamento della libertà dei media. Diffondere delle informazioni di interesse pubblico è un atto protetto dal diritto internazionale e non deve essere eretto ad infrazione. Questi elementi non hanno però avuto alcun peso nella decisione della giustizia britannica di non estradare Assange. Mantenendo le proprie accuse contro Assange, gli Stati Uniti e i loro complici lanciano un segnale preoccupante: le persecuzioni e le procedure giudiziarie contro i rappresentanti dei media che svolgono il proprio lavoro rimangono una realtà. Fino a quando?
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