Conflitto

La guerra di aggressione russa all’Ucraina è in corso da più di due settimane e nessuno è davvero in grado di dire dove, come e quando taceranno le armi. La violenza della avanzata russa, il gioco dei corridoi umanitari annunciati o immaginati come passaggi per la Russia per persone in fuga dalle bombe di Mosca, lascia intendere quanto Mosca giochi una partita scorretta (per quanto corretta possa essere una guerra). Appare dunque razionale la scelta fatta dalla Nato e dall’Europa di non imporre una No Fly Zone sui cieli di Ucraina spiegando in maniera esplicita che questa avrebbe come conseguenza un probabile conflitto con conseguenze inimmaginabili.

Ma come siamo arrivati a questa guerra? Le cause sono diverse, si incrociano e sovrappongono tra loro e per metterle in fila occorre andare indietro di qualche anno. Nella testa di Putin non c’è solo il Donbass o la “protezione” delle popolazioni russofone di alcune regioni ucraine e neppure l’eventuale e remota possibilità che Kiev entri a far parte a pieno titolo dell’Alleanza atlantica. Il problema cruciale per la Russia è la relazione con l’Occidente e l’Europa dopo che, trenta anni fa, il suo Paese ha perso la Guerra Fredda e ha subìto quelle che ha vissuto come una serie di umiliazioni.

 

Naturalmente, l’attuale classe dirigente russa è anche quella che grazie alla privatizzazione rapida e corrotta delle risorse naturali russe si è arricchita ed è rimasta al potere per tutti questi anni.
«I riformatori e i loro consiglieri occidentali hanno deciso che le riforme del mercato dovevano precedere quelle costituzionali. Le sottigliezze democratiche avrebbero ritardato o addirittura minato la politica economica. (…) Con riforme radicali di mercato, il popolo russo avrebbe visto ritorni tangibili e si sarebbe innamorato della democrazia – ha scritto Katharina Pistor, che insegna Diritto comparato alla Columbia Law School –. È stato un errore, la presidenza Eltsin si è rivelata un disastro economico, sociale, legale e politico. Rivedere un’economia pianificata nello spazio di 13 mesi si è rivelato impossibile. La liberalizzazione dei prezzi e del commercio da sola non ha creato mercati. Ciò avrebbe richiesto istituzioni legali, ma non c’era tempo per crearle (…) la terapia d’urto ha generato disordini sociali ed economici così gravi e improvvisi che ha messo il pubblico contro le riforme e i riformatori».


Parallelamente l’Occidente e la Gran Bretagna in particolar modo garantivano libero accesso ai miliardi dei nuovi oligarchi russi, che beneficiavano delle riforme portate avanti in parallelo alla corruzione.

 

Perché è importante rivedere questa storia? Perché l’assenza di democrazia e la formazione di un blocco di potere che tiene assieme miliardari e apparato militare e di sicurezza è anche una delle ragioni che determinano le tensioni con la Russia. In questi stessi anni l’Alleanza
atlantica ha accolto al suo interno molti Paesi del blocco ex sovietico.

 

Probabilmente è un errore, perché rimanda innegabilmente un segnale a Mosca: continuate a essere percepiti come un nemico. Attenzione però, la retorica sull’espansione della Nato come imperialismo yankee neppure va presa troppo sul serio: i Paesi baltici, la Polonia, solo per fare i primi esempi, hanno scelto di entrare nell’Alleanza perché memori del trattamento riservato loro da Mosca. L’adesione di quei Paesi ci ricorda poi come la Nato sia già ai confini russi e che dunque, l’eventuale adesione ucraina non cambierebbe molto per Mosca in termini di sicurezza militare.

Prima del 2014
La crisi ucraina con la quale facciamo i conti oggi è cominciata prima del 2014 ed è esplosa in quell’anno. Dopo il 2005 lo scontro politico nel Paese è stato caratterizzato da rivolte anti-corruzione e spinte pro o contro l’occidentalizzazione. Dietro a queste spinte c’erano la Russia, legata al gruppo dirigente emerso dopo l’indipendenza nel 1991, e l’Occidente, che ha sostenuto quei politici che volevano invece l’Ucraina membro dell’Unione europea e parte della Nato.

 

Con il 2014 e la rivolta finita nel sangue su cui esistono infinite versioni che negli anni hanno alimentato sospetti e fatto crescere tensioni (ha sparato la polizia, i manifestanti, cecchini pagati dalla Cia o da Mosca) comincia una nuova fase. La rivolta caccia Viktor Yanukovych dopo che questi aveva congelato la firma sull’accordo di partnership economica con l’Europa citando la necessità di ulteriori negoziati con la Russia. Il ricatto russo sulla vicinanza all’Europa (non alla Nato) va pure sottolineato: una classe dirigente incapace di allargare gli spazi democratici o di produrre avanzamenti a 30 anni dalla caduta del regime sovietico non vede di buon occhio un vicino che si avvicina a un’Unione e non vuole perdere un cliente economico importante.

Il rischio isolamento
La risposta russa a quella tensione è l’annessione della Crimea e il sostegno all’emersione della spinta indipendentista delle regioni dell’est. Parallelamente crescono e si trasformano in milizie armate i gruppi nazionalisti di estrema destra finanziati da alcuni oligarchi/politici ucraini. Indipendentisti filo-russi e neonazisti si combattono da allora nel Donbass, infischiandosene dei protocolli di Minsk. Quegli accordi garantivano più autonomia alle regioni dell’est e il mantenimento delle frontiere esterne dell’Ucraina. Nessuna delle parti ha davvero lavorato per implementarli e, forse, il presidente Zelensky, eletto anche con l’idea di raffreddare il clima in quelle regioni, non ha avuto la forza o la capacità di riportare all’ordine l’ala più nazionalista e intransigente delle forze militari e delle milizie ucraine.


La storia recente, insomma, ci dice che sull’Ucraina si è giocata una partita più grande e complicata e che, per uscire da questa tragica vicenda servirà ripensarla e capire come correggere gli errori passati. Non per dare ragione a Putin e al suo governo di oligarchi e militari, ma per costruire degli equilibri capaci di durare. La violenza con cui la Russia sta operando, l’invasione non solo concentrata nelle regioni autonomiste, complicano tutto: perché il popolo ucraino dovrebbe, dopo tanta sofferenza, accettare di rimanere neutrale come chiede Mosca? Nel medio termine la Russia rischia di rimanere più isolata di oggi, se è vero che dopo l’Invasione anche la Moldavia e la Georgia si sono ulteriormente avvicinate a Europa e Nato.

 

Che la guerra di aggressione all’Ucraina non riguardi solo la protezione delle regioni autonomiste lo si evince dalla scala delle operazioni militari. La lista delle richieste russe a Ucraina, Europa e Nato è di quelle difficilmente accettabili nella situazione data: neutralità e demilitarizzazione del Paese e non adesione all’Ue, riconoscimento dell’annessione della Crimea, indipendenza (non annessione) per le regioni indipendentiste del Donbass e Lugansk. Difficile uscire dal vicolo cieco nel quale Putin si è cacciato, cacciandoci però anche Ucraina e resto del mondo.


Nelle settimane prima del conflitto Germania e Francia hanno provato a mediare e abbassare i toni e il presidente Macron continua a ribadire che mantenere i canali di comunicazione aperti con Mosca è fondamentale. Le figure e i Paesi che stanno svolgendo un lavoro di intermediazione tra le parti sono però altri, perché i Paesi europei sono in qualche modo parte in causa. Nei giorni scorsi il premier israeliano Bennet è volato a Mosca per poi passare a Berlino e parlare più volte al telefono con Zelensky.

 

Israele, storico alleato americano, è in una posizione ambigua per via della questione siriana: se vuole colpire come fa miliziani islamisti e filo-iraniani in quel territorio deve mantenere buone relazioni con il Cremlino, che è pure seduto al negoziato sul nucleare con l’Iran, che Israele non vuole – per questo ha mantenuto una posizione ambigua nel condannare l’invasione. La Turchia ha un rapporto complicato con Mosca: ha comprato armi e dipende per il 40% del gas dalla Russia, facendo infuriare la Nato, di cui è membro, ma si è schierata sul fronte opposto ai russi nelle guerre in Siria, Libia, Azerbaigian.


Mentre scriviamo Sergej Lavrov e il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba hanno concordato di incontrarsi ad Antalya, saranno (o sarebbero) i primi colloqui tra i capi delle rispettive diplomazie. Anche gli Emirati Arabi Uniti sperano di svolgere un ruolo: il piccolo e ricco Paese ha investito molto in Russia e coopera con Mosca in Libia. Sullo sfondo due grandi potenze asiatiche: India e Cina. Il premier indiano Modi è parte dell’iniziativa americana per contenere la Cina (il Quad), ma il suo esercito dipende molto dall’industria delle armi russa, New Delhi si è astenuta all’Onu, cosa che ha lasciato molti stupiti. La Cina, che tutti hanno visto dal primo momento come un mediatore possibile, ha molto da guadagnare da una rottura Russia-Occidente, ma anche dal divenire una potenza diplomatica, cosa che oggi non è. Mentre scriviamo Pechino ha ancora un atteggiamento ambiguo e ambivalente, si propone di mediare, ma poi alti funzionari si lasciano andare a dichiarazioni non diplomatiche sull’Ucraina.


Capire quale sia il punto di caduta è difficile. Le capitali europee sono all’opera, parlano con tutti, ma è difficile immaginare un ruolo di mediazione mentre si isola Mosca e si forniscono armi all’Ucraina. Il presidente ucraino Zelensky, forse su pressioni occidentali, parlando con ABCnews ha detto «discutiamo dell’autonomia del Donbass (non della indipendenza) e dell’adesione alla Nato». Un’apertura interessante fatta mentre scriviamo. A questo punto toccherebbe a Mosca di farne. Accettare le condizioni russe imposte con le bombe, invece, non sarebbe un bel precedente.

Pubblicato il 

09.03.22
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