La guerra nel pozzo

Giunti a questo punto, di dubbi ce ne sono pochi. La guerra americana contro l’Iraq di Saddam Hussein si farà. Certo, è legittimo sperare che le resistenze internazionali, i timori per un conflitto che potrebbe avere conseguenze più gravi di quanto oggi gli stessi pessimisti ipotizzano, possano fungere da freno alla voglia bellicista di George W. Bush. Ma tutto lascia pensare che la macchina bellica americana, che già si è messa in moto, proseguirà il suo cammino. Fin dove, non è dato oggi saperlo. Intanto il Congresso statunitense darà un largo mandato al presidente autorizzandolo a muover guerra a suo piacimento. L’unico interrogativo resta sul numero dei consensi che la Casa Bianca otterrà. Questo almeno dicono gli esperti statunitensi di cose parlamentari, e non ci sono motivi per dubitarne. Da settimane e settimane B&B, (Bush e Blair) lanciano un affondo quotidiano a sostegno della necessità del conflitto. Anche se le loro argomentazioni non risultano convincenti e mancano di riscontri, poco importa: fondamentale è che siano ripetute sino alla noia: con il tempo finiranno per risultare convincenti. Ad esempio che Saddam Hussein sia in possesso di armi chimiche, batteriologiche e sia in grado di costruirsi l’atomica dall’oggi all’indomani viene ormai dato per scontato. Nell’informazione quotidiana della maggior parte dei mass-media, se fate attenzione, vi accorgerete che i condizionali a poco a poco sono andati quasi scomparendo, i dubbi anche. Le categoriche affermazioni del sig, Scott Ritter, ex-capo degli ispettori Onu, ex-marine, americano tutto di un pezzo, il quale, con cognizione di causa, dice che Saddam Hussein non ha e non è in grado di minacciare chicchessia non vengono prese in considerazione, scompaiono nel nulla. Seconda, e più recente, giustificazione della guerra: Saddam Hussein non solo ospita, ma dota di armi chimiche i terroristi di Al-Qaida. Anche in questo caso nessuna prova, né viene citato un rapporto della Cia, pubblicato in febbraio dal New York Times (John Pilger, Internazionale, nr 454) nel quale si affermava che non esistono prove credibili di un coinvolgimento di Hussein nel terrorismo. D’altronde chi segue un po’ le vicende mediorientali sa benissimo che Bin Laden avrebbe voluto guidare personalmente una crociata di fedeli contro il satrapo di Baghdad e che la sua rottura con la casa regnante saudita avvenne proprio perché Riad aprì le porte ai soldati americani. In questa ricerca di motivazioni, Bush è giunto a ricordare che Saddam Hussein aveva ordito un complotto per uccidere suo padre. Fatto probabilmente più che vero, ma che non dovrebbe davvero sconvolgere gli americani che hanno seguito a lungo la pratica di attentare alla vita di capi di stato stranieri, possibilità di nuovo considerata dopo l’11 settembre. Tutto per legittimare una guerra “preventiva”. La strategia americana sta sovvertendo regole solidificatesi. La guerra non è più la “continuazione della politica”, ma si sostituisce ad essa. Ha tuonato un vecchio leone della politica americana, il democratico Ted Kennedy: «La guerra deve essere l’ultima istanza, non la prima risposta». Dato per scontato che Saddam Hussein, per criminale che sia, non costituisce un pericolo immediato per i suoi vicini, né tantomeno, per gli Stati Uniti, perché tanto caparbia determinazione nel volerlo rovesciare? La risposta unanime è: il controllo del petrolio iracheno, qualcosa come 112 miliardi di barili. Tanto oro nero da minare la forza contrattuale dell’Arabia Saudita, (sempre meno “malleabile”), da affossare l’Opep. Se si pensa che gli Stati Uniti, grazie alla guerra afghana, sono in procinto di controllare le ricchezze petrolifere eurasiatiche, ne consegue che sarebbero in grado di determinare la politica petrolifera su scala planetaria, dettando prezzi e regole. Verso quel secolo “tutto americano” che Washington ha iniziato a pianificare dopo il crollo dell’Urss. di Gaddo Melani Una sporca faccenda Il 27 settembre è apparsa sul quotidiano arabo “Al Hayat” una lunga intervista al segretario generale della Lega Araba Amr Musa, che in qualche modo riassume la posizione dei paesi arabi nei confronti della crisi irachena. Tale posizione è improntata a tre elementi principali: la moderazione, la ragionevolezza e la legalità. Il mondo arabo non solo non vuole la guerra ma non vuole che la politica statunitense scavalchi i principi di legalità internazionale espressi dalle risoluzioni delle Nazioni unite: non vuole che la diplomazia venga meno e che la diffidenza in Saddam sia alibi sufficiente per aggirarla. Amr Musa sottolinea questo concetto, come in generale lo sottolineano i paesi arabi moderati. La disponibilità del raìs di Baghdad di riaccogliere gli ispettori sugli armamenti impone un cambiamento fondamentale nelle strategie internazionali. Ora non è più possibile una reazione violenta e indiscriminata contro l’Iraq, i presupposti ufficiali affinché le accuse al governo iracheno rientrino nei canali della politica verbale esistono finalmente. Ogni ulteriore pretesa di privare di fondamento le dichiarazioni di Saddam non ha più ragion d’essere, una “guerra preventiva” sarebbe una dichiarazione di guerra alla legalità internazionale. D’altronde questo non significa che le nazioni arabe non nutrano alcun sospetto sulla sincerità di Saddam Hussein. Al contrario, il timore che Baghdad disponga di installazioni segrete per la produzione di armi di distruzione di massa sussiste anche qui. Ma il punto è che il mondo arabo respinge ogni forma di politica fondata sul sospetto e non sulle prove, sulla paura e non sulla ragionevolezza della paura. La lettura di Tony Blair del famoso documento sull’esistenza di armi chimiche, biologiche e nucleari in Iraq non viene pertanto ignorata, o derisa dal mondo arabo, ma accolta con beneficio d’inventario. Fintanto che gli ispettori sugli armamenti non produrranno prove concrete quel documento non potrà infatti avere che un valore propagandistico, e i suoi contenuti riuscire pretestuali per dar corpo a mere illazioni. Ben vengano dunque le ispezioni e che si faccia finalmente chiarezza sulla verità. La Lega Araba aveva d’altronde espresso la sua posizione sul rispetto della legalità internazionale già nel corso della recente conferenza di Beirut in cui si manifestava una posizione unitaria di tutti i paesi arabi, compresi quelli tradizionalmente più vicini agli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e il Kuwait. Posizione che rifiutava ogni attacco immotivato di eserciti internazionali contro i paesi arabi e dunque anche contro l’Iraq, in qualsiasi circostanza e senza l’avallo delle Nazioni Unite. Amr Musa deve però aggirare alcune contraddizioni. Prima fra tutte quella per cui gli stessi firmatari del documento di Beirut offrono oggi le loro basi alle forze dell’esercito americano, vale a dire il Kuwait e l’Arabia Saudita. Contraddizione difficilmente dipanabile ma che egli cerca di risolvere ricordando ancora una volta la priorità dei rapporti politici e diplomatici. Le relazioni “speciali” che intercorrono fra Arabia Saudita, Kuwait e Stati Uniti impongono l’accettazione di simili misure, egli afferma, pur non significando per questo una loro adesione formale all’attacco contro l’Iraq. Posizione debole, ma sostanziata di nuovo su principi legalitari. «Una volta consultati in merito a un attacco contro Baghdad», assicura Musa, «sono convinto che rifiuteranno». Al di là di queste divergenze la questione rimane però soprattutto un’altra: Perché questo momento per l’attacco contro l’Iraq? Quale connessione fra la questione irachena e quella israelo-palestinese? È su questi due punti che il dibattito all’interno del mondo arabo concentra la sua maggiore attenzione. A queste due domande, infatti, le risposte non trovano ancora una precisa formulazione. Ciò che è certo, afferma Amr Musa, è che Israele vuole cogliere il momento, l’occasione unica e irripetibile per portare avanti i suoi piani espansionistici in Palestina. L’attacco all’Iraq costituisce un movente in più per la sua politica di forza: al punto che potrebbe essere la tanto sospirata occasione per cacciare i palestinesi verso la Giordania. Ma gli interrogativi sono molteplici, lo ripetiamo. E riguardano non solo l’Iraq o Israele ma anche il mondo nel suo insieme. Le politiche internazionali degli Stati Uniti sono rivolte a controllare uno degli epicentri strategici della regione come lo è stato l’Afghanistan, al fine non solo di tenere sotto controllo il petrolio («che non costituisce una priorità in sé» afferma Musa) ma di contendere anche l’influenza di Cina e Russia. Il “perché” di questa ostinazione americana nel volere a tutti i costi il crollo del regime di Baghdad va dunque al di là delle cause apparenti portate dall’amministrazione Bush (pericolo nucleare, abbattimento di una dittatura, quant’altro). Concerne disegni strategici su vasta scala su cui il mondo arabo si interroga oggi con la stessa ansia e le stesse perplessità che proviamo noi cercando di andare a fondo a questa “sporca faccenda”. di Marco Alloni dal Cairo Tutti i falchi del Presidente I maligni dicono che da quando è andato al potere, ormai quasi due anni fa, George Bush non abbia mai pronunciato in pubblico il nome del suo rivale Al Gore. Non è il caso di meravigliarsi. Dopo tutto è consuetudine snobbare il nemico, soprattutto quando dice o fa cose che non aggradano. Bush ha cercato di ignorare persino la vittoria di Schröder, perché al cancelliere tedesco non piace l’idea di una guerra contro l’Iraq. Le “colombe” sembrano non piacere al presidente: preferisce i “falchi”. Nella sua amministrazione non mancano proprio. Negli ultimi anni dell’amministrazione Clinton, tra le file dell’allora opposizione molti “falchi” hanno cominciato ad affilare gli artigli in attesa del cambiamento di regime. Il pensiero dei “nuovi conservatori”, come vengono definiti dalla stampa americana, è sintetizzato nella “carta dei principi” del “Progetto per il nuovo secolo americano”, un think tank che concentra il suo raggio d’interesse sui problemi legati alla difesa e alla sicurezza americana. Tra i firmatari della carta, stilata nel 1997, spiccano i nomi del vice presidente americano Dick Cheney, del ministro della difesa Donald Rumsfeld, del fratello del presidente Jeb Bush. Ma soprattutto c’è Paul Wolfowitz, quello che è attualmente ritenuto da molti osservatori politici come il più convinto sostenitore della necessità di “detronizzazione” il presidente iracheno Saddam Hussein. Quello che vogliono è presto detto: difendere la “leadership globale americana”. Per questo – si legge nel documento – bisogna tra l’altro «aumentare sensibilmente le spese militari e, se necessario, contestare regimi ostili ai nostri interessi e ai nostri principi». Cosa questo significhi concretamente lo si capisce scorrendo le 90 pagine dello studio “Ricostruire le difese americane”, sfornato dallo stesso think tank pochi mesi prima dell’arrivo dell’attuale presidente Bush alla Casa Bianca. Di fatto invita ad incrementare e non di poco le spese militari, criticando i tagli decisi dall’amministrazione Clinton, per far sì che la supremazia americana conquistata dopo la caduta del muro di Berlino sia salvaguardata ancora per un secolo. Se si guarda a quello che sta facendo il presidente americano ci si rende conto che queste idee hanno trovato fertile terreno nella nuova amministrazione americana. Bush non solo ha incrementato le spese militari e dichiarato una guerra al terrorismo ad ampio raggio, ma parla apertamente anche di “guerra preventiva” per garantire la sicurezza dei cittadini americani. Questo salto di qualità ha inevitabilmente fatto accendere spie di allarme alle Nazioni Unite, a Parigi, a Mosca e soprattutto nel Medio Oriente, dove nessun paese ormai si sente al sicuro. A giudicare dai sondaggi, Bush ha dalla sua parte la maggioranza dell’opinione pubblica. È riuscito, forse per la prima volta nella storia americana, a far sì che un tema di politica estera tenga banco e forse faccia vincere una campagna elettorale (tra poco più di un mese negli Usa ci saranno le elezione di metà legislatura), mentre, l’esperienza diceva, che gli americani a ridosso delle elezioni preferiscono parlare di problemi interni. Non mancano certo: la borsa è in picchiata e la disoccupazione e la povertà in aumento. «Quello che trovo interessante è che molti di quelli che spingono per la guerra e ritengono che sarà breve e facile non sanno niente di guerra» ha osservato il senatore repubblicano del Nebraska Chuck Hagel ex veterano della guerra del Vietnam, personaggio poco amato dai “nuovi conservatori”. A temere le conseguenze della guerra contro l’Iraq sono soprattutto i militari o gli ex militari, con alla testa il segretario di stato Colin Powell. Si possono citare anche il leader democratico Tom Daschle (ex veterano del Vietnam) e i generali Antony Zinni e Norman Schwarzkopf, due figure centrali della guerra di 10 anni fa. Loro non sono finiti nella lista dei “falchi-polli” (Chickenhawk) che viene stilata ormai da alcuni anni a questa parte da “The New Hampshire Gazette”: contiene i nomi delle personalità di spicco della politica americana favorevoli alla guerra, ma senza un passato attivo al fronte: è il caso di Wolfowitz o Cheney. Sul fronte delle “colombe” troviamo alcune organizzazioni di veterani della guerra del Golfo. Mettono tra l’altro sul piatto della bilancia le conseguenze a lungo termine delle esposizioni a sostanze pericolose durante la guerra del Golfo (avrebbero già fatto migliaia di morti). Dieci anni fa molti soldati sono partiti impreparati e adesso l’esperienza rischia di ripetersi. di Anna Luisa Ferro Mäder da Washington Non in nostro nome Christopher Hitchens, un giornalista impegnato molto famoso negli Stati Uniti, ha interrotto questa settimana la sua ventennale collaborazione con il settimanale della sinistra americana “The Nation”. «Continuare sarebbe falso» perché il settimanale «sta diventando la voce di chi realmente crede che John Ashcroft (il ministro della giustizia ndr) sia una minaccia maggiore di Osama bin Laden» ha affermato spiegando la decisione di partire. I rapporti tra lui e la redazione erano tesi da tempo. La tensione è aumentata l’anno scorso quando Hitchens ha deciso di sostenere la politica contro il terrorismo e la guerra in Afghanistan di Bush ed è diventata insostenibile in queste settimane in cui si parla di un attacco contro l’Iraq. Questo è un esempio eloquente dei dibattiti e delle divergenze che nell’ultimo anno hanno lacerato la sinistra e in generale il mondo intellettuale statunitense, diviso tra chi difende Bush e chi sostiene la soluzione diplomatica dei conflitti. I principali media americani hanno dato e danno poco spazio a questi dibattiti, pur tematizzando senza sosta la guerra al terrorismo e, in queste ultime settimane, la minaccia irachena. Lo spazio è riservato soprattutto alla posizione del presidente e dei due partiti maggiori. Le voci critiche contro un attacco all’Iraq sono state essenzialmente quelle di ex militari o di ex veterani: temono forti perdite umane e una pericolosa destabilizzazione in Medio oriente. La voce dei pacifisti, di quelli che negli anni ’60 riempivano le piazze americane, non si sono quasi sentite. A poche settimane dalle elezioni di metà legislatura, i democratici speravano di riuscire a spostare l’attenzione dei media sui temi economici e sul deficit di bilancio che si fa sempre più profondo. Se in Europa la caduta della borsa riempie le prime pagine dei giornali, in America molto di meno. Bush è deciso a concentrare l’attenzione degli americani sulla crisi irachena. Anche i democratici hanno dovuto piegarsi all’evidenza. Dai loro ranghi si sono levate negli ultimi giorni autorevoli voci critiche verso il presidente. Ha parlato prima Al Gore. Poi c’è stata la sfuriata del capogruppo democratico al senato e in seguito il discorso di Ted Kennedy. Si sono decisi ad intervenire anche perché in queste ultime settimane i telefoni e gli indirizzi di posta elettronica di molti deputati democratici sono stati presi d’assalto da potenziali elettori contrari ad una guerra contro l’Iraq. I più sollecitati sono i deputati e i senatori di colore. Molti elettori neri si chiedono perché di colpo ci sono così tanti soldi per la guerra, quando invece mancano sempre quando si chiede di migliorare le scuole o di garantire una protezione sanitaria per tutti. In queste ultime settimane negli Stati Uniti ha ripreso corpo il movimento anti guerra. «È merito di internet» assicurava un commentatore politico, enunciando la lunga serie di movimenti e associazioni impegnate sul fronte della pace. Questo eterogeneo movimento ha conquistato l’attenzione pubblica grazie soprattutto ad un manifesto a tutta pagina «Non in nostro nome» apparso alcuni giorni fa sul “New York Times”. I firmatari, che ormai sono 15 mila, criticano le decisioni del presidente e soprattutto la sua politica di risolvere i conflitti con l’uso della forza. Tra i firmatari troviamo Jane Fonda, Gore Vidal, Susan Sarandon e Oliver Stone. I pacifisti vogliono adesso far sentire la loro voce nelle piazze americane. L’appuntamento è fissato per il sei di ottobre. Manifestazioni sono in programma in particolare a San Francisco, Los Angeles e New York. I partecipanti marceranno per la pace, ma anche per condannare la detenzione di molti immigrati e l’attacco ai diritti civili. di Anna Luisa Ferro Mäder da Washington

Pubblicato il

04.10.2002 03:00
Gaddo Melani