La guerra invisibile di Erdogan

Perché la grande stampa non parla del conflitto coi curdi

Digitando nell’archivio del Corriere della Sera la parola «Cizre», l’articolo più recente risale al 2005. Qualche notizia più fresca la si trova nell’archivio di Repubblica, il secondo quotidiano d’importanza nazionale italiano. Vi si trovano quattro articoli, uno del 7 gennaio, un reportage di novembre e un articolo riassuntivo in vista delle elezioni turche di novembre. Eppure a inizio settembre, i 120.000 abitanti di Cizre sono rimasti isolati per 8 lunghi giorni, senza luce, senza acqua e senza gas. Impossibile approvvigionarsi di cibo o medicinali. Le farmacie e panifici erano chiusi, i cecchini sui tetti pronti a sparare, le ambulanze ferme ai posti di blocco esterni alle città, gli ospedali inaccessibili. Uno “stato di coprifuoco”, così definito dal governo turco di Erdogan, in cui sono morte 22 persone. Nessun media mainstream di lingua italiana ha riportato questi fatti, salvo rare eccezioni.

 

Non hanno avuto miglior destino mediatico i 58 “coprifuochi” successivi dichiarati in diverse città a maggioranza curda in una ventina di distretti. Coprifuochi che in sei mesi hanno causato la morte di 149 persone tra i civili, stando al rapporto stilato dal Partito Democratico del Popolo (Hdp), il terzo partito del Paese con i suoi 59 deputati. Sono le vittime della guerra al movimento armato curdo del Pkk decisa dal governo di Ankara del partito di Erdogan dopo aver perso la maggioranza assoluta alle elezioni di giugno. Una guerra improvvisa, visto che solo pochi mesi or sono lo stesso governo turco aveva annunciato grandi progressi nel processo di pace avviato anni prima.


Ripetendo l’esercizio della ricerca di “Cizre” negli archivi della grande stampa europea, si osserva invece che la copertura mediatica al medesimo conflitto è stata relativamente importante. Sono corpose le liste di articoli nei grandi giornali tedeschi, francesi o inglesi. La scarsa informazione sul conflitto interno turco appare dunque essere una prerogativa dei media di lingua italiana. Lo scontro in Turchia non è certamente l’unica guerra nel mondo dimenticata, comprese quelle di prossimità (si pensi al conflitto nel Donbass in Ucraina).


La sua scarsa copertura solleva però degli interrogativi. La Turchia è membro dell’alleanza militare Nato e gioca un ruolo centrale nei flussi dei migranti verso l’Europa. Recentemente l’Ue ha stanziato 3 miliardi di euro per arginare la massa di profughi in Turchia. Solo i siriani in fuga dalla guerra sarebbero 2 milioni sul suolo turco. Interessi geopolitici potrebbero aver la meglio sull’interesse mediatico.


Per capire il meccanismo che produce l’oscuramento di una notizia nel circuito dei media, area ha rivolto la domanda a chi di mestiere segue il flusso della massa di notizie quotidiane. «Il nostro problema sullo specifico conflitto in Turchia – spiega Verena Szabo, responsabile esteri della Televisione Svizzera italiana – sono l’assenza d’immagini nel circuito internazionale, le difficoltà nella verifica delle notizie e infine la poca agibilità dei giornalisti sul terreno.».


«L’orientamento del mainstream è determinante, poiché ogni medium nello scegliere quale argomento trattare guarda anche che cosa fanno gli altri – aggiunge Lucia Mottini, responsabile esteri della Radio Svizzera italiana – Altro fattore sono i tagli editoriali alla copertura estera, dove riducendo gli inviati o corrispondenti diminuisce l’offerta di notizie. Infine, le difficoltà crescenti che pongono i regimi autoritari al lavoro dei giornalisti». Per rimanere al caso turco, il governo oltre ad aver incarcerato non pochi giornalisti, ne ha espulsi diversi stranieri perché “scomodi”. È il caso del nostro collaboratore Giuseppe Acconcia, espulso in giugno insieme con altri due giornalisti della Rai e uno francese de Le Figaro.


Per capire il meccanismo nella carta stampata, ci siamo rivolti a Erminio Ferrari che vanta una lunga esperienza quale curatore degli esteri del giornale laRegione. «I fattori sono molteplici e non si ripetono meccanicamente. Nello specifico, i giornalisti del mainstream vanno dove possono accedere comodamente. Solo pochi “pazzi” s’infilano in situazioni complicate. La massa di giornalisti che documentava comodamente l’assedio di Kobane era lì perché il governo turco lo consentiva, avendo tutto l’interesse che la storia fosse raccontata. L’opposto dell’attuale conflitto coi curdi. Se ostacolata, la stampa mainstream semplicemente non lo racconta. E questo scatena un’altra reazione. Quando tutto il flusso del mainstream si concentra su un fatto, nessun medium può ignorarlo. Altrimenti “buchi” la notizia e appari come il giornale non in grado di parlare dell’argomento di cui tutti parlano».


Un’altra spiegazione, spiega Ferrari, è il ruolo delle agenzie di stampa. «Nei media italiani l’Ansa ricopre un ruolo centrale. Se l’Ansa tace quel che succede a Cizre, arrivare alla notizia diventa complicato, specie per un giornale locale con pochi mezzi». Ma chi sono queste agenzie stampa? «Ansa è di proprietà dei giornali italiani, che a loro volta sono sovvenzionati in parte dal governo. Non dico sia determinante, ma è inevitabile che abbia un influsso. L’Ansa copre bene quanto accade in Libia, vuoi per retaggio storico italiano vuoi per la forte presenza dell’Eni. Non significa che il governo gli dice di farlo, ma avviene automaticamente. Medesimo discorso può valere per France Press, molto brava nel coprire l’area francofona dell’Africa».


Un conflitto non raccontato può essere dunque frutto di una concomitanza di situazioni più di una volontà precisa. «Credo sia la maggioranza dei casi, seppur non va esclusa la capacità di orientare il mainstream di alcuni organismi. Nella storia non mancano esempi di temi imposti all’attenzione mediatica per interessi specifici».
Concludendo, se non è possibile imputare tutto alla regia di un Grande Fratello, mantenere una sana diffidenza alimentata dallo spirito critico sul circuito mediatico, in particolare quello mainstream, è doveroso.

Pubblicato il

21.01.2016 10:38
Francesco Bonsaver