La guerra in Kosovo in scena a Lugano

"The last supper" ("L'ultima cena") sarà uno degli eventi principali del Festival internazionale del teatro di Lugano, che si apre questa sera. In cartellone venerdì e sabato prossimi, "The last supper" si interroga sulle conseguenze lasciate dalla guerra sulla popolazione del Kosovo. Esso è il frutto di una interessante collaborazione fra il regista e attore ticinese Markus Zohner e il Multimedia Center di Pristina. Ce ne parla in questa intervista lo stesso Zohner.

Markus Zohner, come si è giunti alla collaborazione fra lei e il Multimedia Center di Pristina?
È stato un processo di lunga durata. È stato il regista Jeton Neziraj ad invitarmi in Kosovo. Ci eravamo conosciuti ad un convegno a Verona durante il quale avevo definito il teatro europeo contemporaneo come il dessert al termine di una cena opulenta, una cosa bella della quale però non c'è una reale necessità. Lui mi invitò in Kosovo per vedere un posto dove il teatro è ancora una necessità. Come prima cosa nel 2006 ci abbiamo portato il nostro "Ha! Hamlet". In quel contesto ho tenuto una masterclass con giovani attori professionisti sul lavoro di improvvisazione teatrale. Tre mesi dopo sono tornato per un workshop di 10 giorni e lì il lavoro si è intensificato.
"The last supper" ("L'ultima cena") è basato sul "Codice di Leke Dukagjini". Di cosa si tratta?
È un antico codice albanese, una legge non scritta che regolava ogni questione quotidiana, dai rapporti di vicinato al diritto di famiglia, dai rapporti di possesso fino al diritto penale. È stato scritto verso la metà del '900, ma oggi non viene più applicato. Fu il regime comunista che lo sradicò in quanto gli impediva di avere un reale controllo sociale. Una parte molto importante di questo codice, e definita in ogni minimo dettaglio, è dedicata alle conseguenze di un omicidio. Esso ha incanalato tali conseguenze nella prospettiva della vendetta, codificandola e ritualizzandola. Il problema è che questi rapporti di vendetta potevano andare avanti per generazioni, anche perché il "Codice di Leke Dukagjini" non regola come si possa interrompere la catena. Di fatto soltanto gli anziani delle due famiglie coinvolte, riunendosi, potevano decidere di chiudere la faida.
E qual è la ragione per cui avete preso il "Codice di Leke Dukagjini" come base dello spettacolo?
Perché il tema centrale è quello della colpa, che ci interessava in relazione alle vittime della guerra. In Kosovo tutti parlano di riconciliazione. Ci siamo dunque posti delle domande concrete: per esempio se una donna che è stata violentata durante la guerra è sul bus con il marito e sullo stesso bus riconosce il suo stupratore, cosa succede? Come si devono comportare le persone coinvolte? Ci siamo allora resi conto che la questione del debito di sangue è molto vecchia, ma anche molto umana. Ed è sul piano umano, più che su quello etico, morale o politico, che abbiamo trattato la questione della colpa. Ci siamo interessati alle ferite della gente e al loro effetto. E non abbiamo mai indicato nel serbo il colpevole. Non è questo che ci interessa, non vogliamo né giudicare né dare risposte o spiegare quanto successo.
Però, oltre che sulle vittime, avrete dovuto riflettere anche sulla posizione dei carnefici.
Certo, ma in fin dei conti, al termine di tutto il lavoro di creazione, abbiamo capito che il colpevole è nella posizione più debole. È una tesi cristiana apparentemente banale, ma non è così: noi ci abbiamo messo mesi per arrivarci. E ci siamo arrivati solo quando abbiamo capito cosa doveva succedere perché l'assassino a sua volta non venisse ucciso: era necessario che si rimettesse in contatto con il sangue della vittima. Così l'assassinio non è più qualcosa di astratto.
Come si è svolto concretamente il lavoro?
Abbiamo cominciato a lavorare attorno a tre temi: Kosovo, teatro e sangue. Prima di arrivare allo spettacolo definitivo siamo passati da due work in progress. Ho proposto il mio metodo, basato sulla creatività dell'attore: ho chiesto agli attori kosovari di darmi i contenuti, io ho soltanto cercato di porre le domande giuste. Le storie che ne sono uscite erano quindi le loro: ma non è diventato un progetto terapeutico-personale, abbiamo lavorato anche sulla fantasia. Erano giovani che avevano vissuto la guerra sulla loro pelle, ma era molto difficile farli parlare su questo tema. Solo dopo mesi, avvicinandoci alla prima, hanno cominciato a parlare di sé stessi. È stato un percorso molto difficile per loro.
E per lei personalmente che importanza ha avuto questo progetto?
Anche per me è stato un progetto importante. Sono in un certo senso un ragazzo della guerra. Mia mamma, tedesca, è nata nel 1939, suo padre era dottore nell'esercito tedesco ed è morto in un bombardamento inglese quando lei aveva due anni. Tutte le storie di guerra che ho sentito erano sempre storie di persone anziane. Arrivando in Kosovo ho invece sentito queste stesse storie da ragazzi di vent'anni, e questa è stata per me tutta un'altra cosa, tutta un 'altra qualità: come se su quel che sapevo della guerra fosse stato acceso un nuovo riflettore.
La costruzione dello spettacolo come si è fatta?
Lo scheletro è dato dal "Codice di Leke Dukagjini". Abbiamo un assassino che per finire viene risparmiato dalla famiglia della vittima in quanto è già condannato da ciò che egli ha fatto. È una struttura molto arcaica, sulla quale sono innestate le storie raccontate dagli attori, provenienti spesso dal loro vissuto.
Che genere di racconti?
Ad esempio raccontiamo di misteriosi attacchi con strani gas nelle scuole albanesi negli anni '80. O di come una donna uscita dal campo profughi abbia ritrovato l'uomo che amava e che credeva morto in piena guerra. Sono storie di ferite, ma non sono necessariamente tragiche: in una guerra ci possono essere anche momenti di straordinaria bellezza, di speranza. O di assoluto bisogno di normalità. Per esempio una ragazza ha raccontato di quando per settimane dovevano rimanere chiusi in casa perché era troppo pericoloso uscire visto che le strade erano piene di serbi. Ad un certo punto lei e le sue amiche hanno avuto una gran voglia di hamburger, ma il migliore era in un locale serbo. Allora hanno messo il vestito migliore, si sono truccate e sono uscite. Comprato l'hamburger, si sono sedute fuori dal locale per mangiarlo. A quel punto sono arrivati cinque ragazzi serbi, gli hanno tolto di mano gli hamburger, glieli hanno schiacciati per terra e le hanno mandate a casa. Questa storia c'è anche nello spettacolo, perché ci parla della voglia di vivere di questi giovani, malgrado l'odio, malgrado la guerra.
Il pubblico kosovaro come ha reagito allo spettacolo?
Erano commossi. Molti ci hanno detto che per la prima volta hanno potuto parlare della guerra. L'essere riusciti, attraverso un lavoro il più profondo e sincero possibile, a dare agli spettatori l'opportunità di ritornare in contatto con le loro ferite mi ha reso felice. Il fatto è che ancora oggi in Kosovo nessuno parla della guerra. A Pristina la gente che cammina per strada sembra scorticata, senza pelle, impossibile da toccare. Si trattava quindi di trovare il modo giusto per affrontare il nodo, bisognava saperli toccare con la necessaria delicatezza e attenzione: allora hanno potuto parlare anche della guerra, e allora finalmente è venuto anche il pianto. Tutto quello che noi come creatori dello spettacolo potevamo fare era fare di tutto perché l'evento accadesse. Ne è uscito un evento molto emozionale, quasi rituale.

Pubblicato il

22.10.2010 03:30
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