La guerra del popolo egiziano

I recenti attentati nel Sinai muovono a una serie di riflessioni. Innanzitutto, perché bisognerebbe prenderli sul serio? Con debita pietas per i morti viene da domandarsi: di quale disegno sono espressione, se un disegno esiste? Seconda domanda: quale rapporto abbiamo noi in Occidente con la portata storica e strategica di questi attentati? Vale a dire: siamo sicuri che il discrimine fra quantità e qualità dei morti ci lascia ancora sensibili? Oppure la straordinaria predominanza volumetrica dei cadaveri in Iraq ci sembra storicamente più significativa delle morti estemporanee altrove, per esempio nel Sinai in Egitto? Le domande qui poste potrebbero sembrare oziose. E da un punto di vista strettamente giornalistico lo sono senza dubbio. "In Iraq – affermerebbero senza alcuna esitazione i commentatori navigati – si combatte una guerra, mentre in Egitto siamo ben lungi persino dal prospettarla". In verità una guerra è in corso in Egitto almeno quanto lo sia in Iraq. La differenza è che in Iraq si da piena e totale esplicitazione delle ragioni di tale lotta: si può evocare un eloquente capro espiatorio, l'occupazione americana e a un secondo livello la caduta di Saddam Hussein. Mentre im Egitto manca il casus belli di cronaca, di rilievo mediatico e internazionale, e quindi si presume che manchi anche la guerra. Ovvero, non essendoci morti o quasi si immagina che manchino le condizioni belliche che li presuppongono. Mentre la mortalità potenziale è nell'aria ed è già un indice significativo di quanti morti ci potrebbero essere se solo il tappo della tensione civile, sociale e storica in Egitto saltasse e desse libero corso alla guerra. In Egitto non si sta consumando una guerra, certo, ma è di tipo bellico il conflitto sommerso che vi accade. Non circolano fazioni dichiaratamente in armi – come potrebbero essere le falangi armate irachene – ma uno spirito che corrisponde alla logica della guerriglia. Ed è precisamente in questo senso che l'Egitto è da considerarsi altrettanto in guerra dell'Iraq. Ed è in questo senso che la miopia necessaria al giornalismo per attenersi alla realtà in quanto evenemenzialità permette all'Egitto di essere, formalmente e ufficialmente, in pace anche agli occhi del resto del pianeta (una parte del quale, sia detto tra parentesi, vedrebbe tuttavia di buon occhio la caduta di Mubarak). Sospendiamo dunque per un attimo il luogo comune che a una guerra debbano corrispondere dei morti. No, prima di tutto a una guerra corrisponde un piano, e a un piano è sempre presupposto un malcontento. Il primo atto di una guerra non sono i morti, i caduti, le vittime, i feriti, la bombe. Il primo atto è sempre una dichiarazione. E quando non è lo stesso Stato a dichiarare guerra, ed è qualcuno all'interno di esso a dichiararla allo Stato medesimo, quasi mai tale dichiarazione viene annunciata. Anzi, quasi sempre non trova annunci se non nel teso silenzio che la implica e sottace. Chi sta dichiarando guerra all'Egitto da qualche anno a questa parte? Gli egiziani. Il popolo egiziano. Un popolo che non trova nella rappresentanza delle sterili opposizioni politiche uno strumento sufficiente per presentare i conti al trentennale governo corrotto di Mubarak in forma democratica, e allora freme nelle retrovie della propria impotenza per presentarglielo in forma violenta, cioé bellica. L'Egitto è carico, saturo. Non teme l'aggressione di una potenza straniera, pronta a imporgli una democratizzazione all'irachena una volta venuto meno ai suoi patti con gli Stati Uniti di non rompere le uova nel paniere mediorientale. Teme il suo stesso eccesso di rabbia, di saturazione, di asfissia. Troppa gente, troppo traffico, troppo poco spazio, troppo poco lavoro, troppa povertà, troppa ingiustizia, troppa improduttività, troppo sottosviluppo, troppa assenza di speranza. Una guerra può anche essere implosiva, ed è di questo tipo di conflitto che si deve preoccupare il governo del vecchio, ostinato faraone Mubarak. E gli attentati nel Sinai sono probabilmente il segno che, in una misura ancora sempre retrograda e di regime, se ne sta preoccupando. Difatti, con l'ascesa dei Fratelli Musulmani al Parlamento e la crescita esponenziale di uno spirito islamico radicale all'interno della società, è del tutto ovvio che l'allarme "effetto-Hamas" porti il governo a tentare di lenirlo prima che debordi, e per fare questo vada a cercare i presupposti per farlo. E quali sono questi presupposti? Per esempio che ancora esistano attentati terroristici sul suolo egiziano, e quindi che ancora bisogna usare il pugno di ferro. Ora, senza fare insinuazioni: chi è l'unico che beneficia degli attentati terroristici in Egitto? Il governo. Che in questo modo ha carta bianca, anche di fronte agli Stati Uniti, per conservare la Legge d'Emergenza in atto dall'epoca di Sadat e continuare la sua antidemocratica politica repressiva. E quindi chissà che la finta, assurda guerra contro i terroristi del Sinai sia solo un mezzo, procurato artificialmente, per combattere e reprimere sul nascere la guerra implicita e taciuta del popolo egiziano contro il suo Stato.

Pubblicato il

19.05.2006 04:00
Marco Alloni