Quando Laerte sta per lasciare casa, suo padre Polonio – ciambellano di corte nell’Amleto di Shakespeare – gli dà un consiglio: «Non far debiti e non prestar denaro; perché un prestito perde se stesso e l’amico, e il far debiti fa perdere il filo dell’economia». Il filo dell’economia gli Stati Uniti l’hanno invece perso da un pezzo. “Twin debts”, così chiamano gli americani i debiti gemelli di cui sono afflitti. Cifre da capogiro – buchi neri nelle tasche dei privati cittadini e del governo – che hanno perso qualsiasi contatto con la dimensione umana, al di fuori e al di sopra della materia: 2’000’000’000’000 i dollari (oltre ogni immaginazione tattile) che l’anno scorso i cittadini americani hanno preso a prestito per le spese di consumo, dalle scarpe per il jogging all’acquisto dell’auto.
Fratello gemello – ma ben più sviluppato – dei 2’000 miliardi di dollari di debito privato è quello pubblico che alla fine del 2003 ha raggiunto i 6’760 miliardi di biglietti verdi (che equivalgono a 2 secoli di produzione del Kenya). Un intero popolo vive al di sopra delle proprie possibilità, lo si sente dire sempre più spesso. Ma se c’è qualcuno che consuma più di quello che ha, logicamente ci deve essere qualcuno che risparmia per lui. Se c’è un debitore da qualche parte c’è anche un creditore. Chi presta denaro agli Usa? Perché a questa nazione viene concesso ciò che nessun altro può permettersi? Cioè prendere a prestito pagando con la propria promessa di debito. Tutti pazzi per l’America? «Il dollaro è un’arma di distruzione di massa», dice senza mezzi termini il giornalista Tsi Fabrizio Fazioli nell’intervista in pagina.
Sono gemelli eppure sono così diversi. Figli inequivocabilmente dello stesso padre il debito pubblico americano e quello dei privati cittadini sono comunque due diverse facce di una stessa medaglia. Da una parte ci sono le famiglie statunitensi che si indebitano per spese di consumo mentre dall’altra il governo accumula di anno in anno deficit che appesantiscono il debito del paese nei confronti del resto del mondo (vedi grafico sotto). «Gli americani comprano tutto come forsennati prendendo i soldi a prestito in ogni modo possibile. È una situazione analoga alla bolla speculativa che ha fatto crollare il Nasdaq nel 2000, uno shock dal quale l’economia mondiale si è a malapena ripresa», a lanciare l’allarme questa volta è Stephen Roach capo economista dell’americana Morgan Stanley tramite le colonne del quotidiano italiano la Repubblica (13 settembre 2004).
Ma com’è possibile che ad un individuo possa essere data la possibilità di indebitarsi a tal punto? La grande illusione americana del momento è il mattone. Il valore delle case statunitensi è cresciuto dell’incredibile cifra di 6’000 miliardi di dollari nel solo 2003. Ieri la tua casa valeva 100, oggi il mercato te la valuta 200. E l’ipoteca? Non è un problema, negli Usa vengono concesse ipoteche fino all’80 per cento (in alcuni casi si arriva al 99 per cento). Costi per trasformare in contanti il guadagno patrimoniale? A differenza dell’Europa continentale praticamente nulli. Cosicché i proprietari di casa possono esporsi maggiormente grazie all’ipoteca e spendere di più, molto di più. Intanto a tenere alti i prezzi delle case ci pensano coloro che investono nel mattone nell’irrealistica speranza di prezzi futuri ancora più alti a cui rivendere l’immobile. Questa è la definizione di bolla speculativa.
Dal 1995 ad oggi il prezzo delle case negli Stati Uniti è cresciuto in media del 40 per cento in termini reali. Tutti pronti ad affermare che è stato creato tangibile benessere? L’aumento dei prezzi delle case non crea ricchezza, semplicemente la ridistribuisce. Chi possiede un immobile potrà esercitare un maggiore potere d’acquisto. Intanto il valore immobiliare – ed è ciò che accadrà – potrebbe crollare mentre l’ammontare dei debiti che sono stati accesi resterà fisso. Ma le vie per accedere al credito non si fermano qui negli Stati Uniti, paese in cui i prodotti finanziari sembrano fatti apposta per il “consumer spending”. Tassi di interesse bassi e carte di debito alimentano la voglia di shopping a tutti i costi. All’annuncio dell’imminente attacco in Iraq Bush jr. aveva chiesto al popolo americano di aiutare gli Stati Uniti: «spendete, fate sì che la nostra economia resti la più forte del mondo». L’altra faccia della medaglia di questo debito dei privati è il debito “macroeconomico”, quello degli Usa nei confronti del resto del mondo. Debito che è metamorfosi del fratello minore, con una natura decisamente diversa ma altrettanto inquietante che ci spiega il giornalista Fabrizio Fazioli nell’intervista sotto.
Dollaro e distruzione di massa
Fabrizio Fazioli, si sente spesso dire che gli Stati Uniti vivono al di sopra delle proprie possibilità ma che non ci si deve preoccupare dell’immenso ammontare del loro debito perché sono l’economia più forte del mondo. Lei cosa ne pensa?
Penso che la voce corrente sia quella giusta, ma che non ci si debba preoccupare è tutto da dimostrare. Il fatto è che gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo che può indebitarsi sulle spalle degli altri. Lo notava già Charles De Gaulle negli anni Sessanta, il quale avviò vanamente un lungo contenzioso per opporsi alla strapotenza del dollaro. Si immagini oggi che il deficit corrente americano raggiunge e oltrepassa i 150 miliardi di dollari. Che fa per esempio la Cina che vanta un credito commerciale nei confronti degli Usa di 13 miliardi di dollari? Fa esattamente quello che facevano i paesi del Golfo con i Petrodollari o l’Europa con gli Eurodollari: acquista buoni del Tesoro americano. E perché lo fa? Per investire i dollari che ha guadagnato. E così facendo finanzia comodamente i debiti e i consumi degli Stati Uniti. Ma se il dollaro nel frattempo perde buona parte del suo valore, la ricchezza accumulata in altre parti del globo si scioglie come neve al sole. E questo ovviamente non fa la felicità di quei paesi.
Il debito americano è dunque nelle mani dei governi di mezzo mondo. Come mai si accorda così tanta fiducia agli Stati Uniti?
Bisogna risalire agli accordi di Bretton Woods, alla fine della guerra, per capire questo meccanismo monetariamente vizioso. Un meccanismo che invece pretendeva di essere virtuoso e risanatore, perché in effetti le Nazioni al di qua dell’Oceano alla fine della guerra, vinte o vincitrici che fossero, si ritrovarono tutte con le casse vuote, senza più soldi e senza più copertura aurea. L’oro, per un motivo o per l’altro, era tutto confluito a Fort Knox, il Tesoro americano. Apparve allora logico e persino obbligato che il dollaro diventasse l’unica moneta ancora convertibile in oro e di riferimento, sulla quale erano ancorate tutte le altre, rette da un cambio rigorosamente fisso. Qualcuno per la verità oppose qualche timida resistenza, ma di fatto il dollaro divenne l’unica moneta internazionale con la quale tutti, ricchi e poveri, sviluppati e non, potevano commerciare. Le cose poi, è noto, sono cambiate: anche il dollaro, oramai troppo abbondante in giro per il mondo, perse la convertibilità con l’oro e i cambi da fissi divennero flessibili, proprio per la debolezza cronica del biglietto verde americano, il quale però non perse il suo statuto di unica vera moneta mondiale. Insieme al danno dunque anche la beffa: il danno che vede erodere la ricchezza di altri paesi, la beffa che li costringe, loro malgrado, ad alimentare il benessere degli Stati Uniti che vivono ampiamente al di sopra dei propri mezzi e che indisturbati continuano a dominare il mondo. Negli anni ottanta era toccato al Giappone questo ruolo ingrato di finanziatore indiretto degli americani. Prima ancora fu l’Europa con gli eurodollari poi i paesi del Golfo con petrodollari, oggi probabilmente la Cina: con sinodollari? E a chi toccherà domani?
Lei ha paragonato il dollaro ad “un’arma di distruzione di massa”. Cosa intende?
Qui le vicende monetarie ci conducono inevitabilmente alla guerra con l’Iraq. Sull’obiettivo dell’intervento americano si son date molte versioni: guerra del petrolio, guerra contro il terrorismo, guerra per il controllo dell’area mediorientale, un’anteprima insomma di mire occidentali ben più vaste e non tutte decifrabili. È passata invece del tutto inosservata la posta in palio monetaria. Non tutti sanno che l’Iraq, sottoposto a embargo decennale da parte Usa, aveva deciso qualche anno fa di commerciare il suo petrolio non più in dollari bensì in euro. Un fatto che sarebbe passato come assolutamente marginale, se altri paesi non avessero brandito la stessa arma del ricatto monetario, l’Iran, Siria e Arabia Saudita in particolare. Ma non solo. La banca centrale del Venezuela, altro produttore di petrolio, stava progressivamente tramutando le sue riserve monetarie, non molte per la verità, da dollari in euro. In Argentina, assediata dal dissesto economico e dall’inflazione, l’euro circolava oramai come moneta alternativa. E poi la Russia aveva già fatto capire, in codice più o meno diplomatico, che l’eventualità euro non le sarebbe proprio dispiaciuta. Gli enormi prestiti miliardari in dollari al paese e alle repubbliche di Putin possono essere letti anche come riparazione e ricucitura monetaria. Per non parlare poi dell’Europa dei 25 i cui nuovi stati finiranno inevitabilmente nell’area euro. Se nel suo ruolo di dominatore il dollaro dovesse essere sostituito, o anche solo concorrenziato, se insomma una parte del mondo dovesse uscire dalla sua area per cadere in un’altra, l’America non lo potrebbe sopportare e nemmeno permetterselo. Questa, si ammetterà, non è una posta in palio da poco e può valere una guerra.
L’euro potrebbe essere allora una soluzione al “male dollaro” ?
All’euro manca del tutto il riconoscimento giuridico internazionale come invece era successo per il dollaro a Bretton Woods nel 1944. Oggi è vero non c’è più la copertura aurea e le monete non sono più ancorate a un regime fisso e istituzionale di cambi fissi. È vero anche che nella sfida a distanza tra le due monete, l’euro sembra aver preso le dovute distanze ed essersi notevolmente consolidato. Ma di lì a scardinare la sessantennale supremazia del dollaro ce ne vuole. L’arma di distruzione di massa del dollaro, abbiamo visto, riesce ancora a esercitare nel mondo tutta la sua influenza
Quanto durerà questa “illusione collettiva”?
Penso che sia ancora una realtà più che un’illusione, se è vero che potere e moneta vanno di pari passo. Re e imperatori hanno sempre battuto moneta propria e soprattutto l’hanno imposta ai loro sudditi e alle terre conquistate. La moneta, come la lingua, è sempre stata uno strumento di aggregazione, un denominatore comune per sancire di fatto una supremazia, sia essa politica, economica o militare. |