La globalizzazione da “soluzione” a problema

Lo si nota anche nel nostro piccolo mondo economico, non c’è più differenza tra locale e globale: da artigiani a industriali ci si lamenta, si è preoccupati, si teme persino la cessazione delle attività, perché il rifornimento di questa o quella materia prima, di questo o quel semiprodotto proveniente da altrove, è difficile, incerto, impossibile, oneroso. E non è solo questione di sanzioni, di Russia o Ucraina .
A livello macroeconomico (nazionale, europeo) lo stesso problema si presenta da qualche tempo e induce a mutare le strategie: cercare cioè di ridurre le dipendenze o le interdipendenze, costruirsi in casa alternative.

 

Ma non è facile, sa piuttosto d’illusione o di paradosso sovranista. Si propone persino un ritorno alla “autarchia agricola”, in modo particolare in Svizzera, contestando ad esempio le misure per salvaguardare la biodiversità, che toglierebbe terreno coltivabile, o dando voce trionfante alla Syngenta che auspica un maggior ritorno ai prodotti chimici per aumentare la produttività agricola (non uno che abbia reclamato una minor sottrazione di terreno agricolo, destinato a costruzioni, in sovrapproduzione, o a speculazione edilizia).


C’è chi ha sintetizzato la nuova situazione di fragilità con l’espressione-constatazione: la mondializzazione (globalizzazione) è diventata un problema dopo essere stata la soluzione. La soluzione, anche, a produrre  e vendere di più, a crescere all’infinito, a mettere in concorrenza il lavoro, abbassandone i costi, a eliminare ciò che non è concorrenziale, produttivo, profittevole, a sprecare e abusare della natura.


Separare due circuiti elettrici sino a quel momento connessi vien definito decoupling (nell’immancabile inglese, che deriva comunque dal francese découplage; potremmo tradurre: disaccoppiamento). Quel termine ha ora preso un senso geopolitico ed economico ed è imperversante (persino i cinesi l’hanno subito addomesticato in tuo gou, che significherebbe... tendenza a ridurre, a sopprimere).

 

Tutti, dagli americani, ai cinesi, agli europei e anche agli svizzeri, si dichiarano contrari al “decoupling”. Perché sarebbe la fine del libero commercio, il ripristino di barriere doganali, il tramonto dell’impero infinito delle multinazionali e dei loro enormi profitti, il ritorno dei prezzi alti e dell’inflazione (in parte già in atto). Tutti si comportano però, con varie tattiche, come fosse una idea che si impone, da considerare, una misura di sicurezza da non scartare, per salvaguardare l’economia interna. Anche se sanno che ci sono materie prime o rare, indispensabili nella tecnologia moderna, che trovi solo in parti ben precise (e a rischio o insicure) del mondo.


In economia le idee e i concetti, prima ancora di formare una intangibile teoria scientifica (com’è capitato per il neoliberalismo, che ha generato libero scambio e mondializzazione) precedono di solito l’evoluzione della realtà. È quindi la visione che gli attori economici hanno della mondializzazione che sta cambiando.

 

La pandemia è stata un rivelatore, la guerra ucraina una conferma: la mondializzazione, con le sue dipendenze e interdipendenze, è effettivamente passata dal registro della soluzione a quello del problema. Soprattutto perché il diritto o gli standard tecnici, che si ritenevano alla lunga fattori di armonizzazione o persino di sviluppo umano, sono diventati armi di accesa e bellicosa rivalità tra potenze. Ancora una volta ha ragione il vecchio Marx: l’infrastruttura (l’economia) determina la sovrastruttura (la politica, la geopolitica).

Pubblicato il

19.05.2022 09:32
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