Si direbbe che il fisco è moralmente ambiguo. Da un lato dovrebbe essere l’unico strumento che permette l’equa distribuzione della ricchezza, chiedendo a chi più ha e dando a chi ha meno, attenuando la diseguaglianza. D’altro lato, manovrato dalla politica, tende ad agire diversamente, favorendo gli alti redditi, i profitti d’impresa, i guadagni di capitale, gli accumuli di patrimoni con le successioni. In quest’ultimo caso diventa doppiamente immorale: dapprima perché rinuncia alla giustizia fiscale secondo la quale ognuno deve dare secondo la propria capacità finanziaria (come sentenzia la stessa Costituzione); poi perché, privando di mezzi l’ente pubblico, rende difficile o impossibile la realizzazione del bene comune e la solidarietà, principio democratico fondamentale. Poiché la palese doppia immoralità non va bene, non è vendibile, può suscitare le ire del popolo, si cerca sempre di miscelarla con qualcosa di buono e digestivo: o giustificandola con una finalità che gioverà a tutti ed eviterà cose peggiori, come la disoccupazione, oppure aggiungendovi quel tanto di concessione “sociale” o “aiuto assicurativo”, a mo’ di bilanciamento, equivalente alla pellicola dolce sulla pillola amara. Capita così che si evita di agire come si dovrebbe secondo giustizia fiscale (ognuno sia tassato progressivamente secondo le sue capacità finanziarie sul proprio reddito, i patrimoni, i profitti, i guadagni di capitale ; il fisco sia pronto e severo contro gli evasori, non limitandosi a graziarli di quando in quando con amnistie fiscali), con scappatoie che evitano di colpire i grandi manovratori (finanzieri, grandi gruppi, multinazionali, imprenditori ecc.) o adducendo il pretesto che altrimenti scapperebbero verso lidi più fiscalmente generosi oppure sostenendo che volendo agire come giustizia richiederebbe non creeremmo le condizioni ideali per attirarli, farli vivere e prosperare in casa nostra. Con grandi vantaggi per tutti: ottenere più reddito imponibile, creare attività e occupazione, distribuire reddito da lavoro, evitare dislocazioni. Quello che sembrava atteggiamento moralmente inaccettabile si trasforma in tal modo, grazie al tocco politico, in atto moralmente auspicabile. Negli ultimi anni, in particolar modo in Ticino (ma anche nella Svizzera centrale o in Romandia) si è continuato a sviluppare le cosiddette strategie di promozione economica, sia cercando di non lasciarsi sfuggire chi era già insediato sul territorio, sia attirando sul proprio territorio altre imprese, in particolar modo straniere. Strategie consistenti in sempre minori richieste fiscali (sgravi). Convinti, anche, che riducendo in maniera consistente il carico fiscale si aumenteranno pure gli investimenti sul territorio, in modo da produrre e vendere maggiormente. A conti fatti la “morale” appare però un po’ diversa. Se la domanda nel mercato dei prodotti fatica ad assorbire tutta la produzione, com’è capitato negli ultimi anni di crisi, alle imprese non conviene investire i loro maggiori profitti al netto delle imposte. Preferiscono deviare i loro utili sui mercati finanziari, facendo lievitare i prezzi dei titoli in borsa, accrescendo di fatto la loro ricchezza finanziaria, oltre tutto poco o niente tassata, riacquistando anche con i profitti ottenuti le loro azioni per farne aumentare i corsi, accontentare gli azionisti, procedere a fusioni-acquisizioni transcontinentali che svuotano la realtà (o sovranità?) nazionale e si risolvono in improvvisi annunci di poderose soppressioni di posti di lavoro. Ed è frequentemente... la morale della favola fiscale. |