Al sopraggiungere dell’autunno i cacciatori diventano amici dei viticoltori e dei contadini. Si fanno riprendere mentre percorrono filari di viti con i grappoli mangiucchiati dai cinghiali o i prati dove di notte pascolano tranquillamente i cervi invece delle mucche, e promettono di risolvere il problema con le loro doppiette. Gli amici di Bambi, i contemplatori di farfalle e i vegetariani se ne stiano a casa a guardare i documentari alla televisione, non si impiccino dei problemi che devono affrontare coloro che si impegnano ogni giorno per dar da mangiare (e da bere) alla popolazione. La narrazione è ben costruita, ma non corrisponde alla realtà. Da tempo la caccia non ha più la funzione di procurare cibo alla gente perché già alla fine dell’Ottocento la selvaggina era completamente sterminata, ed è ritornata nei nostri boschi soltanto grazie alla lungimiranza di quei politici che all’inizio del Novecento realizzarono il Parco nazionale in Engadina. La natura è un prodotto di cultura. Del resto anche i contadini del nostro paese non fanno quasi ormai più parte del settore primario, se si accetta lo slogan che li definisce “giardinieri del territorio”. La narrazione degli imprenditori è invece questa: le imprese creano la ricchezza, poi lo Stato tramite le tasse ne preleva una parte e la distribuisce all’intera società, dunque per il bene di tutti è necessario che ci sia un ambiente favorevole ai creatori di ricchezza. L’enunciato ha l’aspetto di un compendio del pensiero di Max Weber (essere imprenditore non è una semplice scelta, ma una vocazione, una chiamata a operare nel mondo, e il successo economico è un segno del favore divino) e di Joseph Schumpeter (l’imprenditore è il protagonista dell’economia, un innovatore, un rivoluzionario che distrugge equilibri consolidati e ne crea dei nuovi in un plasmare creativo simile a quello dell’artista), ma probabilmente i due studiosi non si riconoscerebbero in tale uso disinvolto delle loro riflessioni. Gli imprenditori non creano ricchezza, hanno solo la capacità, l’intelligenza, la cultura o l’accortezza di collocarsi là dove essa nasce per prelevarne una parte. Ma quale missione morale se l’economia mondiale è ridotta a un gioco d’azzardo le cui fiches sono le vite delle persone! Lo Stato non preleva le tasse sugli imprenditori, perché le attività a cui essi si dedicano con maggiore impegno sono l’ottimizzazione, l’elusione, l’evasione e la frode fiscale. Lo Stato non distribuisce la ricchezza alla società intera, ma preleva la ricchezza dalla società per devolverla alle imprese. La cosiddetta innovazione non è altro che un atto violento di appropriazione della cultura collettiva. E l’espressione “datore di lavoro” per designare gli imprenditori è abusiva: è il lavoratore che dà il lavoro. Nel 1672 duecento facoltosi finanzieri di Londra, in vista dei profitti che si potevano realizzare con il commercio degli schiavi, avevano fondato a questo scopo la Royal Africa Company, con un investimento di 111.600 sterline. Il traffico consisteva nell’esportare manufatti europei in Africa per scambiarli con gli schiavi, che a loro volta venivano scambiati con zucchero in Brasile o nei Caraibi, e lo zucchero era poi venduto in cambio di contanti in Europa. In quegli anni uno schiavo africano veniva pagato dai piantatori delle isole caraibiche da 900 fino a 2.700 chilogrammi di zucchero, e le navi negriere ne potevano trasportare 400 o 500 per volta. Nel 1713 la compagnia sentì il bisogno di imporre delle regole in base alle quali ogni schiavo sulle navi doveva disporre di uno spazio di 180 cm in lunghezza, 27 in larghezza e 57 in altezza: «la maggior parte delle bare è più spaziosa» commenta lo storico che riporta la notizia. Bisognerebbe pensare a questo quando si sentono gli imprenditori sproloquiare su economia, libera iniziativa, mercato, ricchezza e lavoro.
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