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La fame di riconoscimento
di
Ferruccio Marcoli
Mi ha divertito leggere Gianni Mura su «La Repubblica» commentare una notizia apparsa su un quotidiano rivale: «Mi ha deluso il Giornale, lo devo dire. Attratto dal titolo “Cortina senza neve ma a mettere i brividi sono le feste dei vip” ho dato un’occhiata alle tre foto di vip. La prima era di Maurizio Raggio. Sono passato al testo: Consommé di volatili, Sovrana di branzino. Tournedos di chianina e via in crescendo hanno avuto l’onore di essere gustati da Guido Viceconte, Antonio Tajani, Elio Vito, Peppino Nocco, Gino Trematerra, Rocco Crimi, Mario Pepe, Salvatore Mazzaracchio e Pasquale Natuzzi”. Dal punto di vista di un’onesta seppur ignorante chianina sarà un così grande onore fornire un tournedos gustato da Salvatore Mazzaracchio? Dal mio punto di vista, ammetto la stessa ignoranza della chianina ma di questi nove vip ne conosco al massimo, di nome, un terzo. Sarebbe troppo faticoso dare un minimo d’informazione in più, far capire come si diventa vip e chi lo decide?». La lettura del pezzo mi ha fatto pensare ad un accadimento ricorrente nemmeno tanto tempo sullo sfondo delle cronache televisive italiane. Non c’era occasione in cui, accese le telecamere, prima o poi non comparisse sullo schermo un intruso – sempre quello – a lato di qualche ignaro protagonista della cronaca. L’uomo era sempre lì sorridente e imperterrito a rubare il posto ad altri per essere riconosciuto dai famosi canonici «milioni di telespettatori». L’anonimo, per quanto mi è stato riferito, ha ottenuto l’ambita «visibilità» divenendo persino oggetto di studio sociologico. La cronaca delle feste dei vip e l’episodio dell’esibizionista televisivo sono due esempi fra i tanti che ci dicono quanto è grande l’appetito di riconoscimento dell’uomo del nostro tempo. Lontano dai campi in cui domina l’apparenza, il tema del riconoscimento è in ogni caso un tema forte: ci riconosce (anche legalmente) chi ci mette al mondo; i figli riconoscono (oppure no) l’autorevolezza dei genitori; un morto per incidente, un titolo di studio può essere o non essere riconosciuto... Nel corso dell’esistenza si cercano perennemente riconoscimenti e quando li si ottiene non bastano mai. Al culmine del successo, è stato chiesto a Picasso che cosa gli mancava per essere appagato: «cinque centimetri in più!» è stata la risposta per dire che il bisogno di riconoscimento è l’irraggiungibile punto di tendenza di chi non si accontenta mai dei risultati acquisiti. Max Planck, nell’autobiografia, annota che una delle esperienze più penose della sua vita è stata quella di essere riuscito solo di rado, addirittura mai, a ottenere un riconoscimento totale e aggiunge: «una nuova verità scientifica non trionfa rendendone convinti i suoi oppositori e facendo constatare l’evidenza, ma piuttosto perché alla fine questi oppositori muoiono, mentre cresce una nuova generazione che si è familiarizzata con essa». Strana affermazione per uno che, in vita, nel 1918 aveva ricevuto il Nobel per la fisica. Affermazione meno incomprensibile se inquadrata nell’esigenza ansiosa di essere riconosciuto dal mondo intero, da tutti indistintamente, in modo assoluto e senza obiezioni: in altri termini di «essere amato» come un dio-bambino, al di sopra di ogni cosa.
Pubblicato il
25.01.02
Edizione cartacea
Anno V numero 3
Rubrica
Psicologia
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