La dignità sotto assedio

Come cresce un bambino di tre anni che ogni mattina vede il mare dalla finestra della sua camera ma non ci può andare sennò cadrebbe sotto il fuoco dei cecchini dell'esercito israeliano (a Khan Younis, al confine con la zona sotto controllo dell'esercito israeliano)? Che stima ha di sé un padre palestinese che deve chiedere ogni giorno il permesso a un soldato per mandare suo figlio alla scuola che sta appena oltre una strada tenuta sotto tiro dai militari (vicino alla colonia ebraica di Netzarim)? Che colpo riceve la dignità di un uomo che la notte, per andare al gabinetto, è costretto a strisciare in modo da evitare le pallottole sparate da una vicina torretta (a Khan Younis)? Cosa prova un contadino palestinese che la mattina, guardando dalla finestra, non ritrova più gli alberi che da quando ha memoria sono sempre stati lì davanti a casa, ma che nella notte sono stati spazzati via dai bulldozers (a qualche metro dalla colonia Kfar Darom)? Scene di vita ordinaria nella Striscia di Gaza. Le ha colte da luglio a dicembre dello scorso anno Federica Cecchini, 38enne psicologa nata a Belluno ma cresciuta a Mendrisio e a Coldrerio. Federica Cecchini – che sarà stasera alla Colonia di Mendrisio nell'ambito di una rassegna sulla Palestina (vedi articolo sotto) – è rientrata in dicembre da una missione per conto di Médecins Sans Frontières (Msf). Racconta qui la sofferenza e la speranza trovate nelle case delle famiglie palestinesi che vivono nelle zone più a rischio della Striscia di Gaza. Dall’inizio della seconda Intifada nel settembre 2000, l’esercito israeliano stringe i Territori palestinesi occupati (la Striscia di Gaza e la Cisgiordania) in una morsa ferrea. Le pallottole, le raffiche sparate dagli elicotteri, le incursioni dei bulldozer che radono al suolo edifici e distruggono campi coltivati, il blocco di strade che portano a case e villaggi, la chiusura delle frontiere che impedisce alla gente di andare a lavorare in Israele, gli spossanti controlli ai posti di blocco, sono le forme di un assedio che non è solamente territoriale. Circondate, scalfite ma non vinte da traumi profondi e ripetuti, sono innanzitutto la psiche e la dignità di milioni di Palestinesi. Impegnata in un progetto di assistenza psicologica, medica e sociale di Médecins Sans Frontières alle famiglie che vivono nelle zone a rischio (quelle vicino alle frontiere con Israele, alle colonie di ebrei e alle strade di collegamento che collegano quest’ultime ad Israele), la psicologa Federica Cecchini ha percorso in lungo e in largo la Striscia di Gaza da luglio a dicembre dello scorso anno. Parte di un’équipe mobile composta anche di un medico, di un assistente sociale e di un altro psicologo, è entrata nelle case toccando con mano i sintomi dello stress senza tregua vissuto giorno dopo giorno dal milione e rotti di Palestinesi che vivono assediati dalle Forze di difesa israeliane in un territorio di appena 360 chilometri quadrati. Federica Cecchini, in condizioni normali i traumi sono trattati cercando di rimuoverne le circostanze che li suscitano. Nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania questo non è possibile. Cosa riuscivate a fare con le famiglie che assistevate? Noi di Msf in queste zone rompevamo una situazione di isolamento, pur potendo portare solamente ascolto e presenza. All’inizio la cosa più dura era il senso di impotenza di fronte alla gravità della situazione vissuta da queste famiglie che tirano avanti nella disperazione e nell’assenza di prospettive future. Quando si parte si ha la presunzione di portare un aiuto di tipo professionale, ma poi in realtà uno si rende conto di non poter fare un granché. Devo dire comunque che l’accoglienza è quasi sempre stata molto calorosa. Solo in pochi casi le famiglie rifiutavano il nostro intervento. Allora ci dicevano: "Fintanto che ci bombardano tutte le notti non vediamo cosa potete fare per noi". In che modo l’occupazione militare incide sulla vita delle famiglie di Gaza? Da quando Israele ha chiuso nel settembre 2000 a quasi tutti gli abitanti della Striscia di Gaza l’accesso al suo territorio, l’80 per cento degli uomini si è ritrovato senza lavoro. Si tratta di capifamiglia che non hanno trovano un’altra occupazione all’interno della Striscia di Gaza. Di conseguenza stanno perdendo la loro posizione tradizionale all’interno della famiglia e della società. Molti uomini sviluppano una propensione alla depressione, mentre le donne sono costrette ad assumere maggiori responsabilità. Le donne - certo assai provate - si aiutano fra loro, parlano, mentre gli uomini hanno tendenza piuttosto a rinchiudersi in se stessi. Inoltre, nei confronti dei figli i genitori non riescono più ad avere un ruolo di supporto e di protezione. Cosa intende? Tanti genitori non hanno più la possibilità di proteggere i propri figli, in certi frangenti non hanno nemmeno la possibilità di gestire la loro educazione. I sì e i no che i genitori devono dire in un contesto di guerra non sono i sì e i no che un genitore pronuncia in un contesto di pace. Un esempio: un bambino domandava al papà di portarlo al mare e lui mi diceva: "Io gli devo dire di no, ma come glielo spiego?". Decidere che il proprio figlio non va al mare o non va a giocare non dipende da lui come genitore ma dal fatto che la strada è chiusa, che i soldati non ti fanno passare o che, se giochi in giardino, ti possono sparare. La guerra non consente più di avere un minimo di gestione della propria vita, non permette più a un genitore di dire i sì e i no che aiutano i bambini a diventare grandi. Una ventina di chilometri a sud della città di Gaza ho incontrato un papà che la notte, mentre i militari sparavano, era convinto che se tutta la famiglia si fosse rifugiata sotto un ulivo si sarebbe salvata. Tu guardi questa landa desolata con tre ulivi e ti chiedi "Ma come fa a pensare una cosa simile?" Eppure come fare a dirgli che è assurdo ciò che sta facendo? Bisogna capire che per il padre è importante continuare, nonostante tutto, a rivestire il ruolo di papà protettivo, di papà che decide cos’è meglio e cos’è peggio per la sua famiglia. Nonostante l’assurdità della scelta, per il padre e per i figli è qualcosa di molto importante vedere che il capofamiglia mantiene l’autorità. In fondo, il nostro lavoro consisteva soprattutto nel dare una mano a cercare qualcosa che ancora funziona in queste famiglie disgregate, ad individuare le risorse che ancora restano, nonostante la pressione e le tensioni. I bambini ereditano una situazione di violenza che fra alti e bassi si protrae da almeno un paio di generazioni. Riescono a immaginarsi una situazione diversa? La violenza è diventata normale per loro. Per di più, dalla rioccupazione dei Territori nel settembre 2000 accedere ai servizi è diventato più complicato. Per molti bambini è diventato estremamente complicato andare a scuola. Prima attraversavano una strada ed erano a scuola, ora spesso - per evitare le zone proibite - sono costretti a farsi ore di cammino per arrivarci. Devo comunque dire che, a differenza dei bambini che ho visto in precedenti esperienze nell’ex Iugoslavia - che sembravano degli adulti in miniatura - i bimbi palestinesi appaiono contenti, ridono, giocano. La loro ansia, le loro paure, la tensione da stress viene fuori nella maggior parte di loro durante la notte. Il sintomo più frequente è l’enuresi: molti bambini e adolescenti fino ai 16 anni, che ho incontrato, fanno regolarmente la pipì a letto. I genitori faticano ad ammetterlo e tendono a dire che si tratta di un problema fisiologico da curare con una medicina. Per me era delicato lavorare con loro su questi aspetti. Quale tipo di lavoro svolgeva con i bambini delle famiglie assistite nel progetto? Li facevo disegnare, li aiutavo a dire che avevano paura, ad ammettere che avevano fatto la pipì a letto perché il giorno precedente alla televisione avevano visto un bambino della loro età ucciso. La grande maggioranza dei bambini non riesce a immaginare la fine dell’occupazione e della violenza: come detto prima, tendono a considerare la loro situazione come normale. Per questo non chiedevo loro di disegnare la vita senza la guerra - una situazione per loro inconcepibile -, ma la vita dopo la guerra. Cosa esprimevano i bambini in questi disegni? Sia che esprimessero i loro sogni sia che raccontassero le loro paure o quello che era successo il giorno prima, i disegni erano quasi tutti identici: i bambini disegnavano il carro armato che arriva davanti a casa, l’elicottero che spara sulla casa, il bulldozer che spiana i campi e i soldati che ammazzano i bimbi che giocano. Una volta che chiesi di disegnare la vita dopo la guerra, su 25 disegni solamente 9 non avevano questi soggetti. Per questi bambini la vita dopo la guerra è soprattutto andare a Gerusalemme a pregare alla moschea di Al Aqsa, sono le macchine che corrono sulle strade e i bambini che giocano in libertà. Molti di loro erano stupiti quando io disegnavo alberi, fiori, uccellini. Questo per dire quanto la violenza sia onnipresente nella loro vita. Nei Territori occupati la geografia cambia di giorno in giorno. La distruzione di strade e campi elimina punti di riferimento fisici che hanno un ruolo importante anche nell’equilibrio mentale della gente. Come vivono i Palestinesi questa situazione? È vero che i punti di riferimenti geografici sono fondamentali. Nella Striscia di Gaza il disorientamento può essere molto forte. Le faccio un esempio. Visitavo spesso un signore invalido che viveva in una casa isolata vicino alla colonia Kfar Darom. Davanti alla sua casa c’era un giardino con fiori, alberi da frutta e altre piante. Ogni volta che andavo da lui, sua moglie mi offriva dei fiori. Un giorno sono arrivata e la strada era sbarrata: c’era del filo spinato e un varco di venti centimetri. Dopo avermi minacciata, i soldati israeliani mi hanno lasciata passare oltre. Sono arrivata dove prima c’era il cancello e mi sono sentita persa. Il cancello non c’era più, la recinzione nemmeno, non c’era più niente. Dove prima c’erano alberi, rose e fiori, c’era solo terra smossa: era tutto un deserto. Mi sembrava di essere fuori dalla realtà e credevo di aver sbagliato posto. Ecco, queste persone da un momento all’altro si vedono arrivare il terrore sulla porta di casa: per questo non la lasciano quasi mai. Molti di loro a questo cambiamento repentino della geografia si sono rassegnati e il disorientamento non è forte come quello che ho vissuto io. Lo stress e la frustrazione provocate dall’assedio dei Territori è l’humus del quale si nutre il fanatismo che si manifesta con gli attentati suicidi che colpiscono Israele. Quali sono le forme che questa frustrazione, questa rabbia, assume all’interno della stessa Striscia di Gaza? Si avverte una forte tensione. Io ho notato un’alta incidenza di violenza intrafamiliare tra genitori, genitori e figli e fra gli stessi figli, che spesso sono assai aggressivi: del resto i problemi da gestire sono parecchi, le risorse si assottigliano e i supporti esterni e interni alla famiglia diminuiscono sempre più.

Pubblicato il

21.03.2003 04:00
Stefano Guerra