Nel passato, il Partito Socialista Svizzero (PSS) si è quasi sempre disinteressato della politica estera, ma da qualche anno l’atteggiamento è cambiato, purtroppo non sempre in meglio. Mentre per riconoscere che a Gaza è in corso un genocidio ci sono voluti quasi 18 mesi, appena gli Stati Uniti hanno scatenato la loro nuova guerra fredda contro la Cina, importanti personaggi del PSS sono saliti sul carro statunitense. Penso in particolare a Fabian Molina, che dapprima si è fatto nominare vicepresidente di IPAC (Inter-Parliamentary Alliance on China), organizzazione anti-cinese diretta da circoli dell’estrema destra statunitense, per poi buttarsi con grande battage pubblicitario a dirigere una delegazione parlamentare svizzera a Taiwan. Ma il vero tornante è avvenuto con la criminale aggressione putiniana all’Ucraina, che com’è stato il caso per la SPD tedesca, anche per il PSS ha rappresentato una “Zeitenwende”, cioè un cambio di paradigma. Tutto ciò, si badi bene, senza fare un minimo sforzo d’analisi geopolitica per capire come mai si era arrivati a tanto. Basta pensare in proposito a come papa Francesco abbia accusato la NATO di avere “abbaiato alle frontiere della Russia” o al fatto, confermatomi personalmente da Gorbaciov nel settembre 2000, che Washington non aveva mantenuto la promessa, fattagli al momento della riunificazione tedesca, di non spostare la NATO “neanche di un pollice” verso Est. Il PSS invece s’accodò alla demagogica telenovela che recitava (e per molti tuttora recita) che, se la Russia non veniva sconfitta, i carri armati di Putin sarebbero arrivati sino a Lisbona. E molti, soprattutto nei circoli dirigenziali dell’UE, utilizzano tuttora questa idea delirante per giustificare gli 800 miliardi del piano di riarmo europeo, che alla fine si tradurrà soprattutto in una nuova ed estrema militarizzazione della Germania. Ma il vento bellicista spira anche a Berna, tant’è vero che nei prossimi tre anni l’esercito avrà a disposizione quasi 30 miliardi di franchi, a cui la sinistra si è, anche se sottovoce, opposta senza successo. Ma ora i corifei del PSS non si oppongono invece più all’avvicinamento della Svizzera ai piani di difesa dell’UE e quindi alla NATO. Certo, già nel 1956 un memorandum segreto del Consiglio federale apriva le porte “in caso di necessità” ad una collaborazione con la NATO. E da diversi anni la Svizzera partecipa a esercitazioni militari nell’ambito del partenariato per la pace della NATO. Ma ora si sta facendo veramente sul serio e questa fregola bellicista ha ormai contagiato anche il PSS. A guidare la fanfara sono nel Consiglio nazionale Fabian Molina e nel Consiglio degli Stati Franziska Roth, che apertamente richiedono una partecipazione svizzera ai piani di riarmo europei. Ma addirittura il co-presidente del PSS Wermuth in una recente intervista a Le Temps conferma che “la difesa della Svizzera comincia ai confini dell’Ucraina… Non bastano quindi le relazioni bilaterali con l’UE, bisogna integrare una struttura europea di sicurezza”. Nella stessa intervista Wermuth sottolinea come “la Svizzera deve riconoscere la sua appartenenza europea, in termini di sicurezza ed economia. Resta da sapere cosa ciò significhi istituzionalmente”. La risposta non può essere che la NATO, anche perché nonostante le turbolenze attuali, è ben difficile distinguere tra NATO e UE. Oltre all’invito a rileggere qualche libro di storia, alla dirigenza del PSS dobbiamo ricordare che ormai tutti gli osservatori sono concordi nel dire che i piani di riarmo europeo andranno a scapito degli investimenti nel servizio pubblico e soprattutto provocheranno uno sconquasso nelle spese sociali. Senza dimenticare il pressante invito ad una pace “disarmata e disarmante” del nuovo papa Leone XIV. |