Il conflitto iracheno è sotto lo sguardo di milioni di spettatori. Ma al di là della drammaticità evidente quasi nessuno ha voluto notare il dramma più serio che lo sottende: il fallimento non già della politica, non già della diplomazia, non già della resistenza civile, e nemmeno dell’etica, bensì il fallimento della cultura. Di fronte all’Iraq preso d’assedio la più grande preoccupazione sembra essere quella dell’analisi, dell’indagine, del dibattito, in particolare del dibattito giornalistico. Ma in realtà quasi nessuno sembra rendersi conto che le mille argomentazioni che vengono messe sul tavolo delle discussioni trascurano la tragedia più grande di questa guerra, che purtroppo non solo l’accompagna ma la precede di anni, di decenni: la tragedia della non conoscenza. Si dibatte delle ragioni politiche che possono averla determinata. Si discute animatamente dei moventi economici che possono esservi sottesi. Si parla di legittimità internazionale, di Nazioni Unite, di Nato, di Unione Europea. Ci si confronta sugli schieramenti militari, sulle bombe intelligenti, sui dispositivi di difesa e di attacco, sulle strategie, sulle divisioni fra gli interventisti e gli anti-interventisti, sugli orientamenti dei partiti, e su tanto altro ancora di cui i talk-show televisivi e della carta stampata sono ricolmi da mattina a sera. Ma sembra che di fronte a questo proliferare di informazioni e di contro-informazioni – oltre che naturalmente di informazioni viziose e di propaganda informativa – nessuno si accorga di un dato che pure è al centro di tutto, e forse è anzi il fondamento stesso di questa guerra. La mancanza di conoscenza: l’ignoranza, per dirla in una parola più schietta. Il mondo si schiera, si divide, aderisce o si oppone al conflitto, ragionando di un paese, di un popolo, addirittura di un mondo, di cui non sa assolutamente nulla: l’Iraq. Chi è inviato al fronte come giornalista porta con sé qualche frettoloso dispaccio d’agenzia e niente più. Eppure parla, parla... informa, informa... O così crede di essere in grado di fare, anzi di essere in dovere di fare. La grande tragedia del mondo occidentale è precisamente questa: giornalisti che ci dischiudono un mondo di cui non sanno assolutamente nulla, nella maniera più assoluta. Come nulla o quasi nulla sanno o vogliono sapere i signori della guerra, che non a caso si stupiscono oggi di non essere accolti dal popolo iracheno con le bandierine americane. Non stiamo parlando – perdonateci – della sola malafede, che presume di poter prescindere persino dalla conoscenza degli ispettori sugli armamenti. Non stiamo parlando di chi fa finta di conoscere anche ciò che non è provabile. Non stiamo parlando di questa assenza di conoscenza strategica, malafidosa, perversa, politica. Stiamo parlando dell’assenza di conoscenza reale, anteriore alla guerra e contemporanea alla guerra. E ahimé (probabilmente) posteriore alla guerra. Questa assenza di conoscenza per cui l’Occidente, dell’Iraq, non sa nulla. Né a livello politico né a livello di società civile. Né del suo passato nà tantomeno del suo presente. Sguinzagliati negli alberghi protetti o per le strade di Baghdad o di altre regioni dell’Iraq, i giornalisti e gli inviati speciali ci parlano di un mondo di cui non hanno la più pallida coscienza. Sanno quelle quattro cose che fanno la tragedia della nostra cultura platenaria e globale, quella presunzione di sapere che deriva dal nozionismo elementare di alcune letture d’accatto e di pochi dati ricavati dalle agenzie di informazione. E sulla base di questa pulviscolare cognizione della realtà ci presentano – persino ci spiegano – la realtà dell’Iraq. È qui che è scoppiata, che continua a scoppiare - inavvertita, ignorata - la più grande tragedia che si accompagna alla tragedia della guerra. In questo fallimento della cultura che si pensa di eludere sostituendo la conoscenza con l’informazione, la condivisione umana e diretta della realtà altrui con la sua cognizione giornalistica. Ha scritto Edward Said su Le monde diplomatique a proposito della situazione della stampa negli Stati Uniti: «Les antennes sont accaparées par d’anciens militaires, des experts de terrorismes et des analystes politiques du Proche-Orient qui ne parlent aucune des langues de cette région, qui n’x ont peut-être jamais mis les pieds, qui tous haranguent les téléspectateurs, dans un jargon appris par coeur, sur la nécesssité pour ‘nous’ de s’occuper de l’Irak, tout en protégeant nos fenêtres et nos voitures contre une attaque imminente aux gaz de combat». Ma guardateli, questi inviati che non saprebbero scambiare con gli iracheni una sola parola, una sola frase, una sola riflessione, un solo discorso, e che pure si stagliano sugli schermi per spiegarci chi sono! Come possiamo pretendere di non essere d’accordo con loro – o di essere addirittura contro di loro – se non sappiamo nemmeno lontanamente con chi non dovremmo essere d’accordo, o contro chi dovremmo combattere? O vogliamo, ancora una volta, pretendere di sapere solo perché siamo abituati a confondere la realtà del mondo con la sua immagine, con la sua fasulla e fuorviante riproduzione mediatica? Permetettemi soltanto questa minima riflessione. Permettetemi di figurarmi un’inchiesta, fra quanti oggi appoggiano o contestano l’attacco americano contro Saddam. Chi sa in che cosa si distingue lo sciismo dal sunnismo, in Occidente? Chi sa quali siano i principi ideologici del partito Baath di Saddam Hussein? Chi conosce i momenti fondamentali (non pretendiamo i dettagli) della politica di Saddam Hussein negli ultimi trent’anni? Chi conosce l’Islam per come è vissuto in Iraq? Chi ha vissuto almeno per qualche mese nel mondo arabo? Chi conosce i retroscena storici della questione curda? Chi ha mai messo piede sul suolo iracheno prima di oggi? Chi conosce anche solo un musicista, un cantante, uno scrittore, un poeta o un artista iracheno? E potremmo ovviamente continuare all’infinito... No, non abbiamo bisogno di una risposta a questa immaginaria inchiesta. La risposta sarebbe fin troppo ovvia. Ciò che abbiamo bisogno è di capire come sia possibile, sempre, perpetuamente, in questa come in altre guerre, rimanere indifferenti di fronte alla più eclatante e tragica delle evidenze: che stiamo facendo una guerra senza nemmeno sapere contro chi la stiamo facendo. Che stiamo ammazzando senza nemmeno sapere chi. Ci saranno molti morti in questo conflitto. Ma il morto peggiore lo seppelliamo giorno dopo giorno, e anno dopo anno, più a fondo nella terra, ostinandoci a diventare sempre più arroganti nella nostra pretesa di sapere e di giudicare ciò che sappiamo benissimo di non sapere e di non avere nessun elemento per giudicare. A meno che la nostra coscienza civile non sia così scaduta dal farsi bastare, per la sua militanza, l’ignoranza e il pregiudizio. Cose che non solo ci impediranno di capire il perché delle prossime guerre ma saranno, probabilmente, come per questa, una delle cause fondanti della loro esplosione.

Pubblicato il 

11.04.03

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