La cultura del dialogo

Un applauso liberatorio, abbracci, lacrime che sgorgano e tappi di Prosecco che saltano. A casa delle quattro margherite il cui gambo non è stato reciso, nella sede di “Un ponte per Baghdad”, nella redazione del “Manifesto”, in tantissime case italiane. La pace è stata liberata, la pace ha liberato le nostre margherite. Il tentativo infame di togliere di mezzo i testimoni di una guerra criminale e di dimostrare che tra la barbarie americana e la barbarie dei tagliatori di teste – lo scontro di civiltà – non c’è più nulla è fallito miseramente. Simona Pari, Simona Torretta, Ra’ad Ali Abdul Aziz e Manhaz Bassam sono libere. Sono le 17.45 ora italiana di martedì quando l’emittente Al Jazeera dà la notizia ripresa dalle agenzie di tutto il mondo, poco dopo arrivano le immagini dei nostri simboli di pace, volti finalmente sorridenti alla fine di un incubo. Per raggiungere questo obiettivo hanno lavorato in tanti. Per primi i pacifisti e le pacifiste attivando ogni possibile canale della diplomazia di base tra i popoli. Si sono mossi gli ulema sunniti, le associazioni religiose e civili sciite in Iraq, in tutti i paesi arabi, in Italia. Si sono mossi gli stati arabi, l’Olp e persino settori jihadisti, gli hezbollah libanesi, il re della Giordania, il più importante giornale del Quwait. Bambine, donne e uomini hanno manifestato a Baghdad rompendo un tabù. Tutti per chiedere la stessa cosa: liberate le quattro margherite. Il governo italiano è stato costretto a rinunciare alla linea tanto macha quanto suicida del “con i terroristi non si tratta” che aveva ottenuto come unico risultato la morte del povero Baldoni, giornalista e volontario di pace. Berlusconi, tramite il sottosegretario Letta che ha preso il posto dell’imbelle e inconcludente ministro degli esteri Frattini, ha trattato, e come. È stato costretto a cercare e dare dignità politica agli interlocutori arabi e alla sua opposizione parlamentare. Forse si è pagato un riscatto di un milione di dollari per la libertà dei quattro ostaggi, di sicuro poche ore dopo la liberazione 15 bambini iracheni sono stati portati in Italia per essere curati. Forse il riscatto lo si è (giustamente) pagato anche per coprire quel che realmente si nascondeva dietro un rapimento che risulterebbe incomprensibile, senza tener conto dell’infuocato scenario iracheno: qui si concentrano i servizi segreti di mezzo mondo; spesso, qui, gli obiettivi degli occupanti (e del governo fantoccio) e quelli del terrorismo si incrociano fino a coincidere nell’intento di cancellare la sacrosanta resistenza popolare alla guerra americana – e inglese, e italiana… – e il lavoro volontario degli operatori di pace che mostrano ai civili iracheni un altro volto dell’Occidente. Volontari che lavorano con donne e bambini iracheni, aprono scuole, distribuiscono libri, forniscono medicinali, organizzano il trasferimento negli ospedali italiani di bambini non operabili a Baghdad, o a Falluja, o a Kirkuk; volontari che si muovono senza scorta perché l’unica assicurazione sulla vita è la loro biografia, quel che fanno, che è l’opposto dell’azione di morte dei militari comandati quaggiù per esportare la presunta democrazia dei Bush, dei Blair, dei Berlusconi, con le bombe a frammentazione e la strage quotidiana della popolazione civile. L’incubo è finito, si torna alla normalità. Anzi no, l’incubo è finto solo per qualcuno perché milioni di iracheni restano ostaggi delle truppe d’occupazione. Come ha detto al termine di una fastidiosa sceneggiata da unità nazionale il commentatore di uno dei fogli berlusconiani, “Libero”, «la guerra continua». E invece, pensano a sinistra anche coloro che per facilitare la liberazione degli ostaggi hanno accettato di stipulare una tregua con il governo guerrafondaio – da Rifondazione comunista ai Verdi, dal Pdci alla sinistra diessina – la guerra deve finire, l’Italia deve riportare a casa i suoi soldati. Il ritiro delle truppe ha fatto la sua ricomparsa nel dibattito politico un paio d’ore dopo i festeggiamenti per la riconquistata libertà delle due Simone e dei due loro compagni iracheni. Anche nel mondo pacifista, a partire dai militanti di “Un ponte per…”, con un sospiro di sollievo si è tornati a respirare e gridare forte: grazie a tutti quelli che ci hanno aiutato, grazie anche al governo ma nessuno dimentichi che Simona e Simona erano a Baghdad contro la guerra, per gettare semi di pace. I semi delle margherite che sono diventate il simbolo dell’impegno in Iraq e nel mondo di “Un ponte per…” e delle Ong, quelle sul serio non governative, quelle che si muovono senza scorte militari. Berlusconi doveva ridimensionare il ruolo e l’immagine dei nostri volontari e così ha voluto che ad accogliere le due Simone al momento della liberazione ci fosse l’uomo della Croce rossa, associazione governativa che nei precedenti rapimenti aveva ricoperto un ruolo, diciamo così, piuttosto ambiguo. Ma ciò non toglie nulla al fatto che il governo è stato costretto a cambiare l’asse portante della sua politica internazionale, recuperando una cultura antica di ragionevolezza e mediazione all’interno del bacino del Mediterraneo che rimanda al tempo degli Andreotti e dei Craxi. Di chi, cioè, obbediva agli americani ma senza inginocchiarsi davanti all’Impero, riuscendo persino a dire qualche no. Qualcuno ricorderà la crisi di Sigonella, o il rapporto forte dell’Italia con Arafath e i palestinesi. Il pacifismo ha salvato gli ostaggi Chi aveva pensato che con il rapimento delle due Simone si sarebbe potuta scrivere la parola fine sul movimento pacifista dovrà ricredersi. Il pacifismo, in Italia, non è fatto solo di manifestazioni oceaniche, di numeri e bandiere. È fatto di milioni di uomini e donne capaci di gioire e di soffrire, persino di sprofondare nella più cupa disperazione ma senza smettere di pensare, ora di parlare e ora di tacere, agendo, facendo politica. Magari in processione con una fiaccola in mano. Magari attivando tutti i canali di comunicazione costruiti in anni di relazioni generose con tutti. Anche con quelli che chiamano nemici, se serve ad aiutare i civili e far fare un passo indietro alla morte e alla sua falce impietosa. La rete di solidarietà ha pagato, ha mosso coscienze, organizzazioni, governi. Per la prima volta in Italia gli immigrati musulmani si sono mossi nella stessa direzione di chi in Italia è nato, mostrando un embrione di convivenza multietnica. La sede di “Un ponte per” è in piazza Vittorio, a Roma, nel luogo più multietnico del paese. Ci sono negozi e bancarelle e trattorie cinesi e indiane, tunisine e palestinesi. Ci sono fioraie italiane – i romani e le romane, da sempre, quando al mattino vanno al mercato, insieme a carote e pesche comprano mazzi di fiori per la casa – quelle fioraie che, alla notizia della liberazione delle due Simone, hanno inondato la sede di “Un ponte per…” di rose e margherite. In piazza Vittorio, a Roma, c’è un’Italia dove vale la pena di vivere. Dove si vive meglio che non nei palazzi della politica. È già iniziato il coro delle sirene che chiedono di estendere il metodo bipartisan applicato durante il rapimento degli ostaggi all’intero confronto politico tra maggioranza e opposizione. Berlusconi tenta di incassare l’indiscusso successo diplomatico per consolidare la sua posizione di potere, figlia soprattutto delle divisioni delle opposizioni che in poche settimane hanno consentito a un traballante cavaliere di Arcore di riposizionarsi in sella al cavallo italiano. Un cavallo spossato da una politica suicida, classista, razzista. Ci avviciniamo a una delle peggiori e ingiuste leggi finanziarie, mentre a colpi di maggioranza (e con qualche débâcle dell’opposizione) le destre stanno facendo carne di porco della Costituzione, con devoluzione e presidenzialismo, rompendo il principio di solidarietà generale insito nella Carta fondamentale. Per non parlare di come hanno ridotto il lavoro, e i lavoratori. Nella battaglia per il rinnovo dei contratti, a partire da quello principe dei metalmeccanici, ne vedremo delle belle. Vedremo chi sta con chi, anche tra le forze dell’opposizione. Ma questo lo vedremo domani e domani è un altro giorno, come diceva un altro fiore, non la margherita ma Rossella, quella di “Via col vento”. Oggi nessuno può toglierci la gioia per il ritorno tra noi di quattro di noi. Quattro margherite. La pace, per un giorno, ha vinto. Possiamo tornare a seminare con più vigore e fiducia.

Pubblicato il

01.10.2004 04:00
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