La crisi dei microchip

Viviamo in un mondo bizzarro. Idee o azioni ritenute sino all’altro ieri utopie, paradossi, mitologie ingannevoli, hanno ormai ottenuto libero corso. Chi avrebbe immaginato, ad esempio, che la cancellazione del debito – idea che sembra uscire dall’antichità biblica o dal giubileo sabbatico – è all’ordine del giorno nelle discussioni di Banche centrali o organizzazioni internazionali come un’inevitabile via per non sbattere nel muro? Chi avrebbe pensato che il tasso di interesse fosse ridiscusso come improprio (come nel Medioevo, assimilandolo quasi all’usura) o potesse essere azzerato per  evitare una dannazione, non divina ma economica? Chi avrebbe immaginato che la manna dal cielo si traducesse dapprima nella seria teoria economica definita “helicopter money”, la moneta-elicottero (far piovere  dall’alto il denaro o, in termini concreti, distribuire direttamente del denaro ai consumatori, la nuova manna per far consumare) e poi, con la crisi pandemica, nella sua estesa applicazione, con generosi assegni distribuiti (come negli Stati Uniti, ma è già avvenuto altrove)?


C’è poi un susseguirsi di avvenimenti che sembrano generati apposta, da chi sa quale demone divertito, per far capire agli uomini, presuntuosi ma fragili, che basta un microbo arrivato da oriente o una nave di traverso per far inceppare tutte le ruote della loro universale sicumera geopolitica o commerciale.


All’economia (ma conseguentemente anche alla politica, quella del “gioco del mondo”) sta ora arrivando addosso la crisi di altri “microbi”, che ha già provocato la chiusura di qualche fabbrica. Quei microbi ce li portiamo addosso abbondantemente: sono i microchip o semiconduttori o quei minuscoli cervelli o memorie che fanno funzionare i computer, il telefonino e molti altri aggeggi elettronici o elettrodomestici e ora, sempre più determinanti, anche le auto o le armi.  Avevano dato il nome alla Silicon Valley californiana (si diceva un tempo nel Ticino iperbolico che doveva diventare la Silicon Valley della Svizzera!), che aveva il primato mondiale della loro produzione, perso per la concorrenza e l’iniziativa dei produttori asiatici (Corea del Sud, Taiwan, Cina).

 

Così, due rompicapo si presentano ora. L’uno di geopolitica e pretesa sovranità. Che succederebbe, ci si chiede, se la Cina dovesse bloccare le rotte navali che riforniscono l’America o anche l’Europa di microchip? Crollerebbero in molti. Stati Uniti e Unione europea vogliono quindi trovare la loro “sovranità” (Biden «per favorire la produzione su territorio americano» vi investe 37 miliardi di dollari, l’Europa «per stabilire delle capacità europee avanzate nella concezione e nella produzione dei chip» (145 miliardi di euro). Per ricostruire o costruire una “sovranità” nei semiconduttori ci vuole tempo, e non è solo una questione di capitali investiti. Si ritiene che sia i primi sia la seconda hanno un ritardo di almeno un decennio sui concorrenti asiatici.

 

Si può rilevare, di transenna, che per la Svizzera, se non agganciata all’Europa, non ha neppure senso parlare di sovranità. L’altro perché la sovranità ti si ritorce contro e sa di paradosso dei nostri tempi: è infatti la politica di Washington (Trump) che ha ridotto le capacità di produzione mondiale dei semiconduttori impedendo a due importanti industrie americane (Lam Research Corp. e Applied Materials) di crescere esportando i loro prodotti anche in Cina, la quale ha risposto con investimenti stratosferici recuperando il ritardo tecnologico, riuscendo anche a essere determinante sul mercato mondiale.

Pubblicato il

15.04.2021 15:01
Silvano Toppi
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