La corsa pazza di Belgrado

Belgrado, come molte altre città dell’area balcanica, sta cambiando a ritmi sorprendenti. Alcuni tipici tratti dei paesi dell’Est, contaminati da alcuni decenni di utopia socialista e che registi come Kusturica o musicisti come Bregovic hanno saputo innestare nel contesto culturale europeo, stanno scomparendo di fronte al principio di osmosi provocato dall’Occidente. Belgrado, che è il cuore di questa vasta area in trasformazione, cerca di adeguarsi a quelli che la sua popolazione definisce Standard Occidentali. Questa metamorfosi non tiene però conto del contesto sociale di una città che per anni è stata messa in ginocchio dalla guerra e dall’embargo economico e che solo di recente sta rialzando la china. Un processo piuttosto cinico e faticoso in quanto manca il tempo per assestarsi; di conseguenza vige un’assillante tensione provocata da una corsa all’impazzata per raggiungere il treno ad alta velocità chiamato Comunità Europea e “sponsorizzato” dai capitali esteri. In questo clima frenetico vige il rischio di perdere a scaglioni la propria identità culturale costruita a fatica nel corso dei secoli. Basta qualche giorno di permanenza per accorgersi che ci troviamo in un cantiere all’aria aperta di cambiamenti urbanistici, politici e sociali. Durante la mia infanzia, essendo nato e cresciuto in Ticino, Belgrado, al di là delle nozioni acquisite il mercoledì pomeriggio alla “scuola jugoslava”, ha sempre rappresentato per me un luogo legato più all’immaginario che alla realtà. A metà degli anni 80, più che un luogo era una sorta di non-luogo, per dirla con l’antropologo Marc Augé, in quanto era un punto di passaggio obbligato per chi, come la mia famiglia, si recava in Jugoslavia in automobile. E chissà quanti altri bambini con una storia simile, nati e cresciuti all’estero, vi si recavano in auto nei mesi estivi, sopportando l’asfissiante calore, per raggiungere i propri parenti che vivevano in Slovenia, Croazia, Bosnia e Erzegovina, Serbia, Montenegro e Macedonia. Un lungo elenco di Repubbliche, senza contare le regioni autonome del Kosovo-Metohija e della Vojvodina, che fino a pochi anni fa si riassumeva in Jugoslavia, un puzzle andato ormai in frantumi. Belgrado era, e lo è ancora nella mia percezione, la Capitale della Jugoslavia. Mi riesce ancora difficile, da spettatore di questa disgregazione, scrivere e pensarla come a Serbia e Montenegro. Nella mia infanzia la Jugoslavia appariva quasi esclusivamente un paese rurale, tutt’altro che arretrato ma rurale nel senso più genuino del termine, se non fosse per gli alberghi della costa dalmata, ieri come oggi affollata di turisti, in buona parte tedeschi. Belgrado, per me che la vedevo dal finestrino dell’auto impolverato, si riduceva all’Hotel Intercontinental e al Genex-centar, un imponente grattacielo partorito nel periodo più roseo dell’estetismo socialista. Quei due simboli territoriali in lontananza apparivano come dei miraggi, ma una volta raggiunti diventavano per me una sorta di pietra miliare: da lì sapevo che mancavano ancora pochi chilometri a Cacak (120 km a sud di Belgrado) dove vivevano i parenti che non ho mai veramente conosciuto a fondo, visto che vivevo in Svizzera. Nel gennaio 2006 Belgrado si presenta diversa, soprattutto perché da non-luogo ho voluta viverla da luogo, ossia uno spazio fondato sulla storia, la cultura e i legami sociali. Non prendo subito coscienza di essere atterrato in una città risalente a 7 mila anni fa, rasa letteralmente al suolo una quarantina di volte, porta tra Oriente e Occidente durante l’occupazione Ottomana e che con oltre un milione e mezzo di abitanti, dopo Atene, è la seconda città più grande dei Balcani. Non me lo permette l’impatto all’aeroporto di Belgrado, che non è dei più felici per chi come me ricercava una visione “balcanica” dei tempi e dei luoghi istituzionali del paese. Tutto si è svolto in fretta, troppo in fretta. Quella che una volta era una sala del controllo passaporti, fumosa e chiassosa, popolata da alti gendarmi insofferenti che esibivano uniformi e cappelli da scenografia teatrale post-sovietica, ora si presenta con il fascino poetico di una camera mortuaria; silenziosa, sterile e senza storia. I gendarmi sono stati soppiantati da belle donne in uniforme blu, perfino sorridenti e gentili. L’aeroporto è pulito, vige il divieto di fumare in alcune zone, ci sono bar e boutiques come in tutti gli aeroporti del mondo. C’è proprio tutto per chi non vuole vedere niente. L’atmosfera doganale che caratterizzava l’entroterra slavo è stata cancellata in pochi anni. La prima visione della città, filtrata dai vetri di un Taxi, non mi permette di trovare dei punti di riferimento; troppi cartelli luminosi rattoppano come cerotti per bambini – avete in mente quelli colorati disneyiani? – il grigiore delle palazzine ormai scrostate e costruite tra gli anni 60 e 70 senza molta sensibilità nei confronti del territorio e dell’ambiente, ma con l’intento di esprimere una visione efficientista portata all’eccesso. Nel giro di pochi minuti vedo per ben tre volte la “M” arcuata e luminosa di Mc Donald’s. Ronald con il suo pigiama a strisce rosse e bianche – che sia tifoso della Stella Rossa di Belgrado? – è venuto fin qui replicandosi nel territorio con il suo sorriso plasticoso. Ritorno a Cacak, dopo tre anni, per una visita lampo ai parenti. Trovo a malapena il tempo per vedere le nuove nascite e apprendere di nuove morti senza però riuscire a visitare le loro tombe. Davanti agli occhi ho l’inevitabile visione di nuovi centri commerciali e la vista stridente delle macerie dei bombardamenti Nato del 1999, mute testimoni degli atti irrazionali delle superpotenze occidentali. La vernice della modernità non basta a coprire un passato che lacera ancora territorio e uomini. Tra gli hotel Kasina e Balkan, dove abbiamo alloggiato, sorge un albergo-istituzione di Belgrado: l’Hotel Moskva, costruito agli inizi del 900 e che ha ospitato personalità di spicco del mondo politico e culturale. Ha raddoppiato i prezzi da nemmeno tre anni a questa parte. La gente di Belgrado, soprattutto i giovani, non dà tanto l’aria di vivere in città, c’è piuttosto una percezione che vivano la città e, soprattutto, le sue vie, come la storica Ulica kneza Mihaila, un viale affollatissimo risalente all’epoca ottomana, adibito a zona pedonale e tappezzato da loghi e luoghi, o non-luoghi se preferite, dei feticci del potere del libero mercato. Fino a tarda notte e in piena settimana c’è un via vai continuo di giovani. Un’interminabile vetrinizzazione della folla che cammina, parla e si esibisce in un’improvvisata passerella cittadina. Mi stupisce la massiccia presenza di librerie, molto frequentate e aperte sino alle undici di sera! C’è proprio di tutto al loro interno e sorprende il numero di pubblicazioni relative alla dimensione dei misteri dell’uomo: alchimia, simbolismo medievale, massoneria, storia delle religioni. Cerco di cogliere una possibile risposta a tutto ciò, forse la follia della guerra, forse una sensibilità culturale alla quale non sono abituato; i dubbi assalgono la mia mente e mi convinco che non bastano pochi giorni di permanenza per poter formulare un’ipotesi convincente. Rassegnato mi mangio la prima di una lunga serie di palacinke (crêpes) all’Eurokrem, la Nutella dei balcani. Per cena decidiamo di mangiare al ristorante “Dva Jelena” (due cervi), un antico palazzo di inizio 800. In questo mordi e fuggi balcanico sono in compagnia di due amici nati e cresciuti in Svizzera che hanno colto l’invito di scoprire una regione in cui il turismo non trova spazio. Il nostro Cicerone è Dejan, lo zio tassista che insieme a noi per la prima volta visita Belgrado pur essendo nato e cresciuto in Serbia. Il ristorante è situato nella Skadarlija, un’altra via pedonale risalente all’era Ottomana e pavimentata da pietre tagliate in forme irregolari. C’è ancora l’antico guardaroba con una persona che lo gestisce in grande stile: qui il tempo sembra essersi fermato. Nove musicisti di un’orchestra itinerante animano la sala con melodie tradizionali. Il fumo delle sigarette danza per la sala e non fa in tempo ad infastidire i numerosi clienti vista l’ampiezza del locale e l’altezza del soffitto. Il cameriere Predrag, soprannominato “Peca Ciampi” perché per anni ha lavorato presso l’ambasciata jugoslava a Roma, pare essere uscito dal libro di Bohumil Hrabal, “Ho servito il re d’Inghilterra”. La sua efficienza e la sua cortesia sono impareggiabili, ama il suo mestiere come davvero pochi. Di fronte ai bagni e china sul tavolo, una signora anziana con il foulard che le copre il capo (anche questa è un’eredità dell’Impero Ottomano) riposa dietro ad un portacenere con qualche dinaro lasciato in mancia per il servizio offerto. Guardo lei e penso che quando, in nome di quelli che definiscono standard della Comunità Europea, toglieranno anche a questa nonnina la possibilità di arrotondare una misera pensione, vorrà dire che per figure come la sua non ci sarà più spazio. Chiedo a Peca Ciampi se abbia mai servito il Maresciallo Tito e lui, per tutta risposta, prima di congedarsi da noi ci porta a visitare le sale del ristorante. (Ci resta il dubbio: l’avrà mai servito?) In un grande salone, impreziosito da imponenti travi in legno, ci racconta che di recente ha servito i dirigenti e i calciatori della Roma e con orgoglio comincia ad elencarli tutti. Chissà, forse trova strano che io sia più interessato al “salone della caccia” dove Tito cenava con i suoi collaboratori. Quella stessa stanza, in cui sembrava risuonare l’eco di un’utopia fallita, viene ora adibita a banchetti privati, una vera e propria desacralizzazione imposta dai tempi. È questa la Belgrado che ritrovo, desolata come il suo zoo – qui considerato un’istituzione – dove dei suoi “fasti” antichi non rimane che l’ombra. Trascurati da tempo e un po’ abbandonati alla loro sorte, gli animali sembrano sopravvivere miracolosamente. Alla fine del desolante “tour”, all’imbrunire (nessun altoparlante ha annunciato la chiusura) decine di magri e spelacchiati lupi dei Carpazi cominciano ad ululare i loro versi, da far accapponare la pelle. Il buio ha cancellato il confine tra l’uomo e l’animale: una ringhiera in ferro arrugginita. Sembra di essere in un girone di memoria dantesca. Io e i miei compagni di viaggio non siamo gli unici a passeggiare per lo zoo, malgrado il freddo e la pioggia si intravede qualche giovane che passeggia per questo luogo così strano. Un luogo che al contempo mette addosso un’angoscia provocata non tanto dalla visione di chi lo abita, quanto da ciò che rappresenta: un paese ricco di contraddizioni e caratterizzato da una sorprendente energia vitale e che speriamo non si affievolisca solo perché l’Europa, di cui fa parte a tutti gli effetti, di recente gli ha strizzato l’occhio. ________________________ Figlio di immigrati dell’ex-Jugoslavia, Igor Nastic è nato nel 1978; maestro di scuola elementare in Ticino, ha conseguito un bachelor in comunicazione nel 2005; più volte campione svizzero di nuoto in acque libere ha partecipato nel 2003 ai campionati del mondo. Attualmente, oltre all’insegnamento, collabora in ambito museale ed in quello del giornalismo sportivo.

Pubblicato il

24.02.2006 04:00
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