Gli indicatori sullo stato della pandemia in Svizzera non consentirebbero alcun allentamento delle misure contro il coronavirus, ma lunedì 19 aprile bar, caffetterie e ristoranti potranno riaprire ai clienti le loro terrazze. La decisione, presa mercoledì dal Consiglio federale unitamente ad altri allentamenti per manifestazioni e attività sportive, rappresenta sicuramente una boccata d’ossigeno per tutti dopo 120 giorni di chiusura forzata e, oggettivamente, appare sensata. Ma è un atto che genererà anche rabbia e confusione e che ancora una volta dà la misura dell’approssimazione con cui Berna (e anche i Cantoni) hanno gestito e stanno gestendo la situazione.
Osservando gli assembramenti che regolarmente da settimane si formano davanti ai tanti esercizi di ristorazione che offrono cibi e bevande “da asporto”, nelle piazze delle città e ai bordi di laghi e fiumi, è sicuramente meglio che una parte di questa gente vada a consumare nella terrazza di un bar o di un ristorante, seduta a un tavolo e in condizioni di sicurezza per quanto riguarda distanziamento, porto della mascherina, igiene e (grazie all’obbligo di registrazione di ciascun avventore) un sistema di tracciamento in grado se del caso di interrompere una catena di contagi. A deporre a favore di questa soluzione vi è anche il fatto che il contagio all’esterno sembra essere piuttosto raro: un recente studio del Centro di sorveglianza per la protezione della salute irlandese ha rilevato come un solo caso su mille di Covid-19 sia riconducibile alla trasmissione all’aperto. C’è però una contraddizione di fondo nell’ultima mossa del governo federale, che il 19 marzo giustificava la non riapertura delle terrazze col fatto che «troppo alto è il rischio di un aumento incontrollato delle infezioni» e col fatto che un solo indicatore tra quelli individuati per valutare la situazione epidemiologica era sotto la soglia di guardia. Nel frattempo la situazione non è cambiata, anzi è peggiorata: la media settimanale di nuovi casi giornalieri era di 1.549 il 19 marzo e di 2.188 il 14 aprile. Guardando ai citati criteri necessari per allentare le misure, si osserva che: il tasso di riproduzione del virus si mantiene sopra il valore guardia di 1 in tutti i cantoni salvo due (Ticino e Obvaldo), l’incidenza della malattia è di 310 casi ogni 100.000 abitanti mentre dovrebbe essere inferiore a 230, le ospedalizzazioni giornaliere sono in media 59 e dovrebbero essere meno di 54 e i decessi 10 contro i meno di 7 richiesti; soltanto il numero di letti di terapia intensiva occupati da pazienti Covid (220) è inferiore al valore guardia di 250. Pur adottando una decisione in sé sensata, il Consiglio federale dà ancora una volta l’impressione di smentire sé stesso nel giro di poche settimane. Il ministro della sanità Berset spiega che i criteri sono solo indicativi e «non comportano alcun automatismo»: di qui la «sostenibilità dei rischi legati a questa nuova fase di riapertura». Ma sembra più una resa di fronte alla oggettiva crescente indisponibilità di ampie fette della popolazione nell’accettare le restrizioni. La situazione arrischia di alimentare ulteriormente questi sentimenti di rabbia, che peraltro sono figli di una lunga serie di errori, ritardi e reticenze a cui assistiamo da un anno: dal caos iniziale nell’approvvigionamento di mascherine, agli allentamenti affrettati delle misure restrittive dell’estate scorsa, alla passività con cui si è affrontato la seconda ondata, alla strategia dei test di massa tardiva e a volte incoerente, fino alla campagna vaccinale che procede a rilento. Campagna vaccinale che resta però l’unica possibile arma per riparare agli errori del passato e transitare verso una sorta di normalità.
|