Leggendo le due pagine che l’ultimo numero di area ha dedicato ai “costi del low cost ticinese” (bassi salari o da fame per costi di produzione bassi) e la tabella sui “salari bassi in Ticino”, di immediatezza grafica ed efficacia certa, con le due interviste di Federico Franchini all’economista Spartaco Greppi e di Claudio Carrer al sindacalista Giangiorgio Gargantini, si rimane sbalorditi. Ancora sbalorditi, benché quelle realtà rilevate già si conoscevano. E, nella sostanza, ce le ripetiamo da oltre mezzo secolo. Non solo dal citato Angelo Rossi e dalla sua “Economia a rimorchio” (1975), che poteva insegnarci, visto il considerevole afflusso di capitali dall’Italia e il fantasmagorico aumento del risparmio, che avevamo l’eccezionale opportunità (che non avevano altri cantoni) per una politica di investimento non sull’eterno “mattone”, ma su una ristrutturazione radicalmente innovativa dell’economia cantonale, già infestata da industrie di scarso valore aggiunto, venute da altrove e tese alla sola ricerca di manodopera a buon mercato (Ticino, Hong Kong della Svizzera, si scriveva sulla Nzz). È stato invece il trionfo degli immobiliaristi e lo spreco del territorio. No, ancora prima, si poteva risalire: al rapporto Kneschaurek voluto dal Consiglio di Stato per conoscere “lo stato di sviluppo dell’economia ticinese” (1964!): c’era già tutto, indicato e avvertito. Ripetevano dieci anni fa (ottobre 2012) sulla rivista della Seco Volkswirtschaft, due nostri studiosi (Giuliano Guerra e Valentina Mini): “Il Ticino si distingue dagli altri cantoni per il debole costo della sua manodopera. Il salario lordo medio è il più basso delle sette grandi regioni della Svizzera”. Si passavano quindi in rassegna gli obiettivi della politica economica regionale. Primo, proprio il “rafforzamento della competitività”, aggiungendo perlomeno “con la capacità di innovazione”. Non figura tuttavia (ovviamente, si potrebbe dire, stando ai criteri imperanti sulla nozione di competitività) perlomeno la parificazione alla media svizzera della retribuzione al principale fattore di produzione, il lavoro (lo preconizzava invece Kneschaurek). Bisogna essere competitivi in un mondo aperto. Ma quale senso dare alla competitività? Si propone un sillogismo: essere competitivo è poter ottenere parti di mercato crescenti e ottenere parti di mercato crescenti è questione di costi comparati; questi costi sono determinati da prezzi in parte mondialmente fissi (energia, materie prime, equipaggiamenti vari, macchine ecc.). Rimane però una variabile che riaggiusta tutto: il costo del lavoro che, in modi vari, può essere manipolato localmente (o nazionalmente). Conclusione: essere competitivi significa innanzitutto tenere basso o poter abbassare i costi del lavoro. Il contenimento o la riduzione dei costi del lavoro (dei salari), posti come l’alfa e l’omega di ogni politica di competitività, è storia molto triste, sempre raccontata con cinismo e venduta persino come “indice di libertà” (vedi Avenir Suisse, la rivista degli ambienti economici). Che è invece risolutamente da contrastare e respingere. Basterebbero poche domande e relative risposte scontate, per convincersene: quanto è servita a migliorare qualitativamente l’economia cantonale? Quanto è stata pretesto per non innovare, impedendo o frenando l’investimento continuo nel lavoro e nell’organizzazione, pietre angolari di una sana politica economica e di una struttura economica meno fragile? Quanto tende a rendere infruttuosi gli investimenti nella formazione se i formati, puniti dalla competitività, si spostano nei cantoni dove il salario è maggiore?
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