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La classe operaia che si racconta

Lo scrittore Alberto Prunetti e lavoratori migranti si confrontano su dignità, stereotipi e autodeterminazione. La letteratura working class, lontana dal vittimismo e dai cliché, diventa strumento di lotta e resistenza per chi non accetta più di essere raccontato dagli altri

Sono passati ormai alcuni anni da Amianto, il romanzo che rischiava di rimanere nel cassetto del suo autore perché considerato dagli addetti ai lavori, quasi sempre di estrazione borghese, un testo poco adatto per il mercato letterario italiano. Ad anni dalla sua prima pubblicazione, Amianto è un testo ancora letto, discusso, amato e tradotto in numerose lingue. L’anno scorso è stato ripubblicato nuovamente dall’editore Feltrinelli. Si tratta del terzo editore per quest’opera. Amianto racconta la storia di Renato Prunetti, saldatore livornese e padre dell’autore che, a causa dell’esposizione prolungata all’amianto, si ammala e perde la vita prematuramente. Prunetti rende omaggio al padre, ma lo fa evitando il vittimismo: nelle sue pagine c’è tanta ironia, satira, rabbia, sensibilità storica e molto amore per ciò che il padre è stato. Questo romanzo, e le molte riflessioni che lo hanno accompagnato, hanno segnato l’inizio delle fortune della letteratura working class in Italia. Oggi che in Italia e quasi ovunque la classe operaia non è più così forte come un tempo, che non occupa più un posto di rilievo nel sociale, oggi che non è più cool, come direbbe provocatoriamente Prunetti stesso, ha cominciato a raccontare le proprie vite per uscire dall’ombra e non farsi raccontare (spesso male) dagli altri. Prunetti, accanto al ruolo di scrittore, si è mosso anche come operatore culturale ed è riuscito a portare in Italia, grazie alla casa editrice Alegre, il meglio della letteratura working class internazionale. Insieme al collettivo di fabbrica dell’ex GKN ha poi fondato nel 2022 un festival internazionale dedicato alla letteratura scritta in prima persona da chi lavora: il festival della letteratura working class di Campi Bisenzio a Firenze.  

 

Vite, corpi, sogni

Questi testi non sono dei pamphlet militanti, ma raccontano esistenze variegate, contesti di lavoro differenti l’uno dall’altro, sogni di libertà, amori, fragilità, capacità di resistere e di solidarizzare, tristezze e sconfitte di persone di origine working class. Sono testi in cui la corporeità e i desideri occupano un posto di primo piano. Testi raccontati in prima persona da donne, da persone migranti, da figli cresciuti in contesti operai o da sottoproletari che faticano a venire a patti con le regole del mondo patinato della borghesia o della classe media. A partire dalle suggestioni di questa letteratura, il gruppo migrazione della regione Unia di Zurigo-Sciaffusa ha organizzato una tavola rotonda intitolata “Con la nostra voce. Storia di lavoro, migrazione e resistenza”. Il 26 ottobre al Museum Schaffen di Winterthur è stata Angela Siciliano, lavoratrice della gastronomia e militante Unia, ad aprire i lavori ricordando come troppo spesso il racconto delle vite operaie sia spesso stereotipato, paternalistico o riduttivo: «Durante la campagna per il salario minimo a Zurigo e Winterthur mi sono spesa tantissimo perché la ritenevo importante, però mi sono accorta che la stampa era interessata a rappresentarmi come una poverina e non come una persona impegnata per difendere i propri diritti, la propria dignità. C’è stata poi una signora che voleva invitarmi a mangiare una pizza come atto di carità in caso di sconfitta dell’iniziativa. Trovo tutto ciò offensivo». Come ha ricordato Prunetti, «le narrazioni o le rappresentazioni, non solo quelle letterarie, sono in mano quasi esclusivamente a persone che non hanno un contatto con la classe lavoratrice, per questo è importante non farsi raccontare, ma prendere la parola in prima persona». Chi da anni ha deciso di non farsi raccontare, ma di essere testimone del proprio vissuto è Catia Porri, ex bambina nascosta, invitata alla tavola rotonda dal gruppo migrazione: «Ho sempre pensato fosse importante raccontare la mia esperienza di figlia di lavoratori stagionali non tanto per piangermi addosso, ma per far sì che non accadano le stesse cose oggi. Purtroppo, però, la situazione non è affatto migliorata per tutte e tutti: in questo paese le persone migranti rischiano ancora troppo se cadono in povertà e chiedono l’aiuto sociale, le persone richiedenti asilo vivono in condizioni pessime, il ricongiungimento familiare è per molti un miraggio, la condizione dei sans papier è inaccettabile, soltanto per citare alcuni dei problemi». In chiusura di serata il pubblico ha posato per una foto di gruppo con cui ha voluto inviare un messaggio di solidarietà alle lavoratrici e ai lavoratori della Stahl Gerlafingen, a rischio chiusura.

 

Pubblicato il

31.10.2024 08:30
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