È difficile parlare di spettacolo per la nuova produzione del Trickster Teatro di Novazzano che ha debuttato mercoledì sera. Più corretto è forse il termine intervento, se non performance. Perché “La vita: avvertenze e modalità d’uso” per essere uno spettacolo è decisamente anomalo. Va infatti “in scena” in abitazioni private, contemporaneamente in due o tre appartamenti diversi. Ad agire v’è un solo attore per un pubblico ridotto, dieci spettatori. E di per sé non c’è né rappresentazione né narrazione. Piuttosto una lezione, che è tanto coinvolgente quanto non è cattedratica, o forse meglio ancora un pamphlet, con una tesi sul destino dell’uomo urbano contemporaneo che con leggerezza porta lo spettatore lungo tutto il dipanarsi della riflessione. Lo accompagnano attraverso le loro schede dei personaggi immaginari ma plausibili che progressivamente si concretizzano nel modellino del loro appartamento o della loro città, con la loro fotografia o attraverso oggetti del loro quotidiano. Si tratta di personaggi che possono vivere, con i loro ricordi e le loro speranze, in una qualsiasi delle nostre città ormai multietniche, poniamo Chiasso. E in effetti proprio dal comune della cittadina di confine è coprodotto lo spettacolo attraverso il progetto “Chiasso culture in movimento”. Ne parliamo nell’intervista che segue con la regista del Trickster Teatro, Cristina Galbiati. Lo spettacolo rientra nel progetto “Chiasso, culture in movimento” che ha finalità sociali. Cristina Galbiati, in che modo si riesce a far convivere le esigenze artistico-espressive con le finalità sociali che lo spettacolo si pone? Se per sociale si intende didattico le due esigenze non potranno mai convivere. Se invece si intende la creazione di sinergie, di contatti, di situazioni di condivisione, allora il teatro può fare moltissimo, soprattutto se esce dal luogo deputato alla sua fruizione e se annulla il rapporto con la massa per privilegiare quello con lo spettatore. È chiaro che se l’attore ha a che fare con dieci soli spettatori il rapporto cambia, e questo non ha più a che fare con il teatro di per sé, ma con la comunicazione. La sfida, sera per sera, è invitare a partecipare persone provenienti da cerchie diverse, dagli appassionati di teatro a chi vuole solo passare una serata particolare, fino a chi vuole sfuggire alla solitudine. Tutte queste motivazioni sono valide, non ce n’è una migliore di un’altra. Come cambiano i rapporti interpersonali in uno spettacolo come il vostro? Cambia innanzitutto la percezione da parte dello spettatore del suo rapporto con l’attore. Un conto è infatti essere nascosti nel buio e nella massa, come accade in una sala tradizionale; se invece gli spettatori sono solo dieci l’attore parla con ognuno di essi direttamente. Ma cambia anche il rapporto fra gli spettatori. La situazione è infatti molto meno anonima. Quanto all’attore si ritrova con soli dieci spettatori in uno spazio quotidiano, non teatrale: in questo senso è molto meno protetto, direi nudo, anche perché una recitazione troppo marcata non funzionerebbe a livello stilistico. Esperienze di teatro in appartamenti ce ne sono già state. Vi siete rifatti a delle esperienze concrete precedenti? Ci siamo rifatti più alle nostre esperienze precedenti, anche se non avevano nulla a che fare con il teatro nelle case, che ad analoghe esperienze di altri. Certamente non ci siamo rifatti a quelle esperienze di teatro d’abitazione che rientrano nel filone dell’intrattenimento (cameriere comico, cena teatrale). Spostare lo spettacolo nelle case ci interessa come occasione per fare uno studio sullo spazio scenico: in questo senso il confronto è con esperienze di ricerche su spazi scenici non convenzionali, non necessariamente sulle abitazioni. Perché proprio la scelta dell’appartamento come luogo d’incontro, e non altri spazi magari più deputati all’incontro quali la stazione, il bar… Mi interessava lavorare su uno spazio che normalmente appartiene alla sfera privata e che ha iscritta in sé l’idea dell’ospitalità. Anche per questo, oltre agli spettacoli che presentiamo negli appartamenti di Chiasso dove l’attore è ospitato, ne facciamo altri in un ambiente domestico della nostra sede a Novazzano: ci piace considerare lo spettatore un nostro ospite. D’altro canto lo spettacolo va seguito, vuole attenzione e richiede un ambiente protetto e tranquillo. Questo non esclude che lo spettacolo possa andare anche in luoghi non abitativi, come potrebbe essere il nuovo Spazio Officina di Chiasso nell’ambito della mostra di Flor Garduno. Il testo è molto bello. Come è nato? Da mille spunti. A darci la filosofia dello spettacolo fondamentalmente è stato Georges Perec, autore di un libro, “Specie di spazi”, in cui, partendo dalla casa e passando dal palazzo, dal quartiere e dalla città, arriva al mondo in una sorta di gioco di scatole cinesi. Poi c’è una serie di inserti dalle origini più disparate, da una citazione di Wim Wenders ai brani di un libro di Andrea Canobbio (“Traslochi”), alle improvvisazioni degli attori (da cui provengono quasi tutte le schede dei personaggi). Tutte queste fonti sono poi state rimontate con ogni attore, per cui nello spettacolo una stessa frase può essere composta da diverse linee tematiche. Il testo, soprattutto per come è asciutto, ha una scrittura quasi cinematografica. In effetti quando creo le mie immagini penso in maniera cinematografica. Questo può aver influito sul montaggio. Il fatto che il testo sia così prosciugato deriva però da una precisa esigenza legata agli spazi: lavorando in case e non in un normale spazio scenico si è costretti ad agire sul piccolo, e questo ci ha spinti verso un testo che riducesse al minimo tutta la parte delle azioni e del movimento. Ma c’è anche una ragione più programmatica: volevamo raccogliere la sfida di comunicare non soltanto attraverso le emozioni, cosa che comunemente fa il teatro, ma anche attraverso dati scientifici, quali possono essere le statistiche. Abbiamo però evitato l’intrusione di mezzi tecnici troppo sofisticati, come il video appunto, perché il teatro troppo spesso quando usa il video perde la sua vera magia: “La vita: avvertenze e modalità d’uso”, all’opposto, vuole negare questo tradimento del teatro per riporre al centro dell’attenzione l’attore, per riaffermare la natura del teatro. Nella struttura dello spettacolo hanno un ruolo centrale le schede di personaggi ipotetici ma possibili che vivono la città. Qual è la funzione di queste schede enunciate dagli attori con distacco quasi da funzionario? Lavorando ci siamo resi conto che stavamo andando più verso la performance che verso lo spettacolo: la storia si stava progressivamente annullando, rinunciavamo agli effetti tecnici, il tutto in un contesto in cui l’attore non rappresenta ma racconta, e soprattutto racconta qui ed ora a questo pubblico, molto concreto, che ha di fronte. A compensare in un certo senso questa impressione ci sono venute incontro le schede dei personaggi. Da un lato forniscono, come i dati di un passaporto, un’identità senza identità, in quanto l’individuo vi si riduce a pochi elementi tecnici. D’altro canto aprono uno spiraglio sugli aspetti più umani, veri, di ognuno, su quei dettagli che compongono la quotidianità di un essere umano e che su un passaporto non compaiono ma che danno sostanza all’identità di ognuno. Queste due anime sono sempre compresenti, evitando una netta frattura nello spettacolo.

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28.10.05

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