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La catena alimentare
di
Mauro Marconi
Il cliente era lì incolonnato alla cassa di un piccolo negozio di quartiere. Una fila di una decina di persone, più o meno, che cominciava ad animarsi. "È inconcepibile, dovrebbero aprire anche la seconda cassa quando c’è tutta questa gente", e così via. Come i giocattoli che si caricano a molla, tutta la colonna si stava agitando. Ad un certo punto, una commessa, dopo aver parlottato con la sua collega alla cassa, si allontanò. Il cliente la vide avvicinarsi e quando le fu a pochi centimetri, guardandola dritta negli occhi proruppe con un sonoro "Porco…!". Né buon giorno, buona sera, solo "Porco…!". La commessa si allontanò senza batter ciglio. Il mistero dell’attesa non sarebbe stato tale, se solo ci si fosse premurati di chiedere: la seconda cassa era guasta e il tecnico sarebbe arrivato a momenti. Tant’è, il cliente, ormai gonfio di rabbia pagò e se ne andò. Il giorno dopo, al lavoro, l’uomo sedeva dietro il vetro. "Zurigo, andata e ritorno, seconda classe". Leggera pressione di tasti, emissione del biglietto, incasso. La colonna non diminuiva, anzi… In coda un cliente cominciava a spazientirsi. Era tutta la settimana che aspettava quel momento per andare a Milano: un po’ di shopping, o anche solo trascinarsi davanti a vetrine, per dare un senso agli altri giorni. "È una vergogna, non si può fare aspettare la gente così!", apostrofò il bigliettaio non appena fu il suo turno. Da dietro il vetro l’uomo lo guardò e non rispose: cosa ce ne poteva lui, se il suo collega era malato ed era saltato un turno? Lunedì seguente, Milano già dimenticata, di nuovo sul cantiere. Verso le dieci arrivò il cliente a verificare l’avanzamento dei lavori. Un rapido controllo, giusto il tempo per constatare che il cantiere avanzava a rilento e per rimproverare l’operaio che aveva allacciato le prese in modo sbagliato: "Passi pure per un errore, può capitare a chiunque. Ma questi sono davvero troppi. È inammissibile!". Il cliente se ne andò, ripromettendosi di chiamare in ditta per reclamare. E l’elettricista, cominciò a temere per il suo lavoro: un impiego temporaneo trovato tramite un’agenzia di collocamento. Che importava al cliente, se in simili condizioni la sua motivazione non era al massimo, e se non aveva avuto il tempo di conoscere i dettagli dei lavori che svolgeva la "sua" ditta? Rientrato in ufficio, il cliente non chiamò subito in ditta: anche lui aveva un suo… cliente lo aspettava con una faccia lunga e scura. Dov’era l’aggiornamento dei programmi informatici che gli aveva promesso già per la settimana precedente? "È mai possibile, che oggi come oggi bisogna sempre rincorrere la gente per ottenere qualcosa?". L’informatico cercò di spiegargli i motivi del ritardo, un sacco di lavoro, il cantiere per la nuova sede, una macchina che faceva le bizze, … Il cliente non voleva sentire ragioni, e posto il suo ultimatum, rientrò al suo lavoro… Quelli appena descritti, sono fatti reali, ai quali ho più o meno direttamente assistito. Sono fatti isolati, nel senso che sono avvenuti separatamente: l’unico elemento in comune è stata la mia presenza, la mia osservazione. In mezzo a tutta questa realtà, l’unica finzione, che non è poi tale, è quella di collegare fra loro questi avvenimenti senza soluzione di continuità. Ci stiamo rubando il tempo. Ci svegliamo al mattino e subito siamo calati in un mare di urgenze nel quale rischiamo continuamente di annegare, dimenticando che ciò che separa l’urgente dal normale è solo il rischio di morte. Tutto il resto può essere più o meno prioritario, ma mai urgente. Ci stiamo rubando la dignità, che deriva dal riconoscere all’altro una sua identità. Ciò che ci interessa è solo la funzione, il lavoro che uno deve svolgere. Non è importante chi è, ma cosa fa. Così, i confini tra uomo, donna e macchina si confondono fino ad annullarsi. Ci stiamo togliendo la possibilità di vivere meglio, un bene che non può essere perseguito solo individualmente. Guardando chi ci sta di fronte come un nemico, come qualcuno che ingiustamente non ci dà ciò che pretendiamo, non ci mettiamo in una condizione tale da capire il perché di certe situazioni. E capire è il passo che precede l’azione collettiva. Forse basterebbe cominciare a smettere di considerarci dei clienti, e a guardarci "solo" come persone.
Pubblicato il
11.05.01
Edizione cartacea
Anno IV numero 16
Rubrica
Gli occhiali di G.L.
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