Chiedono “rispetto” le fantomatiche avanguardie piromani delle periferie francesi. Le radici della rivolta hanno certamente un legame con il passato coloniale della Francia, con la politica di segregazione nei confronti dei migranti e delle etnie nere e arabe, con le differenze religiose. Ma queste realtà conflittuali non ne sono la causa decisiva, poiché la crisi ha come protagonista una gioventù oramai perfettamente francese, anche se di terza generazione, ostaggio semmai di una colonizzazione interna e di una condizione di sudditanza. È l’organizzazione politica, sociale e territoriale della metropoli a escludere la gioventù dal dialogo transcomunitario e da un progetto comune di costruzione della società. Gli insulti alla racaille (la canaglia) del ministro dell’interno Nicolas Sarkozy (lo sbirro) e la proclamazione dello stato d’emergenza (la legge proclamata nel 1955 durante la guerra d’Algeria, che ricorda in modo sinistro lo spettro dello scontro civile) sono il classico bastone contro un nemico interno, che il governo considera una plebe senza leaders né programmi apparenti. La retorica “repubblicana” e paternalista del presidente Jacques Chirac e del primo ministro Dominique de Villepin, improntata al modello stantio dell’assimilazione, è invece la carota. È una cortina fumogena, che non risponde alle attese di una moltitudine mobile e inafferrabile in cerca di visibilità, ma tanto disperata da distruggere addirittura le proprie poche cose. I politologi, i sociologi e specialmente i cantanti rapper: tutti, nel recente passato, hanno tematizzato – in forme diverse e più o meno pertinenti – la mina vagante rappresentata dalla discriminazione e dalla segregazione nei confronti di migranti e minoranze etniche e religiose: da Parigi a Marsiglia, da Lione a Strasburgo. Del resto già nel 1981 la Francia aveva vissuto un’estate calda nelle banlieues, con 250 auto bruciate, e da allora è uno stillicidio permanente di azioni analoghe. Vani sono stati gli avvertimenti anche quando Chirac ha sconfitto il modello di coabitazione con la sinistra, cavalcando demagogicamente lo spauracchio delle minacce alla sicurezza interna. Nel 2002 Sarkozy ha poi cancellato l’esperienza della polizia di prossimità, inaugurata 4 anni prima, sostenendo che le forze dell’ordine danno la caccia ai criminali e non sono operatori sociali. Oggi si torna a parlare delle “classi pericolose”, un concetto ottocentesco; allora un prefetto di polizia parigino le considerava l’espressione di un sottoproletariato anarcoide e barricadiero. La violenza urbana delle scorse settimane – con il corollario di cassonetti, automobili, autobus, supermercati, scuole e infrastrutture pubbliche incendiate – è l’espressione di un’abissale frattura sociale e politica. Per il potere si tratta di una “feccia” apolitica, contenibile soltanto con la militarizzazione di fatto del controllo territoriale. Il suo atteggiamento insurrezionale ricorda piuttosto i riots anti-razzisti di Los Angeles, le piccole e grandi rivolte ricorrenti in molte città europee (compresi i Chaoten elvetici) e le sommosse dei poveri nelle metropoli del terzo mondo. Nelle grandi città si assiste infatti a una territorializzazione marcata delle ineguaglianze sociali. Il ceto borghese globalizzato e vincente occupa il centro urbano superprotetto, polo amministrativo e finanziario, sede dei servizi più sofisticati, dell’alta cultura e delle residenze più prestigiose. Le classi medie benestanti sono il perno dei fenomeni di centrificazione (valorizzazione speculativa) nella cintura urbana, anche negli ex-quartieri popolari e industriali assurti a zone residenziali di qualità. Le banlieues, le periferie dormitorio peri-urbane, sono riservate a quelle che un tempo erano chiamate classi popolari: oggi esuberi della de-industrializzazione, migranti vecchi e nuovi, minoranze etniche. In Francia a livello nazionale si contano 752 zone urbane sensibili. In particolare le squallide città satelliti (ex-caseggiati operai e edilizia sociale dagli anni sessanta in poi) sono spesso aree sinistrate, racchiuse da linee ferroviarie e superstrade, senza disporre tuttavia per esempio di una struttura adeguata dei trasporti pubblici. La segregazione abitativa si accompagna alla discriminazione scolastica, alla precarietà lavorativa, alla disoccupazione (quasi la metà dei giovani delle cités è senza lavoro), al disfacimento della capacità integrativa e di controllo della famiglia, alla vanificazione delle speranze di ascesa sociale in modo legale, al deserto di occasioni comunitarie, associative e culturali. Certo vi sono anche esempi individuali di riuscita sociale. Ma nella maggioranza dei giovani prevale la sensazione di essere privati di qualsiasi prospettiva, di non essere considerati e ancor meno rispettati, di essere stranieri in patria, di non essere trattati come gli altri; ciò genera un risentimento distruttivo verso lo stato e l’apparato poliziesco. Ma i casseurs si scatenano persino contro il proprio ghetto e le poche ricchezze private e pubbliche; c’è una spinta autodistruttiva contro vetture, scuole, negozi, una sorta di luddismo metropolitano contro le proprie condizioni di vita. Dalle municipalità comuniste all’Islam Per anni in Francia l’insopportabilità dell’esistenza coatta nei sobborghi poveri era stata disinnescata dalla gestione delle municipalità da parte della sinistra e segnatamente dei comunisti. Un misto di iniziative sociali, culturali, ricreative e sportive all’insegna di una concezione egualitaria e non nazionalista della cittadinanza; appunto una comunità dove l’appartenenza nazionale, etnica e religiosa era secondaria rispetto a un legame sociale faticosamente costruito tra mille contraddizioni. Poi le “cinture rosse” hanno subìto il contraccolpo dell’ascesa xenofoba del Fronte nazionale e dell’ossessionante primato del dibattito sulla sicurezza. Oggi i residui sindaci comunisti si sentono impotenti e completamente abbandonati dal governo. In questo clima di sfiducia sociale diffusa, non stupisce che lo slancio nato negli anni ottanta con il movimento dei beurs (i giovani originari del Maghreb in lotta contro il razzismo e per l’uguaglianza delle chances) sia attualmente senza forte incidenza. Peraltro molti di loro hanno paradossalmente realizzato il sogno dell’ascesa e del riconoscimento sociale e pubblico. Sono le associazioni islamiche ad averne ereditato in parte la funzione identitaria, ma in modo ovviamente più tradizionale e autoritario. Assumono un ruolo pacificatore (anche di fronte ai fenomeni di microcriminalità e di economia illegale), di rappresentanza e di mediazione; ciò vale pure nei rapporti con il potere francese, interessato a trovare degli interlocutori, potremmo dire qualsiasi intermediario. Tuttavia per molti giovani la riscoperta di una matrice musulmana non basta per potersi ridefinire di fronte ad una società moderna, in cui ci si vorrebbe integrare ma che si rivela ostile. La situazione sociale si presenta perciò in modo schizofrenico. Di fronte ai funzionari dello stato presenti sul terreno, insegnanti, collaboratori delle agenzia del lavoro e operatori sociali, agli addetti dei servizi pubblici e soprattutto ai poliziotti, molti giovani sviluppano un rapporto intriso di diffidenza, vittimismo (sentimento di discriminazione razziale in quanto black e beurs), paranoia e paura (di fronte a delle forze dell’ordine anonime), rabbia e infine aggressività. Si sviluppano quei meccanismi di auto-esclusione, di auto-martirio e di difesa violenta del proprio territorio, che hanno dato origine il 27 ottobre alla sommossa di Clichy-sous-Bois per la morte accidentale di due giovani in fuga. Ora un ritorno alla parola e alla politica La spirale incendiaria tra le provocazioni verbali dell’ambizioso Sarkozy e la guerriglia urbana dei giovani piromani, in preda ad una prorompente quanto aleatoria fierezza di gruppo, è il primo nodo da sciogliere nella crisi in atto. Finora le regole della “società dello spettacolo”, da una parte e dall’altra, hanno contribuito ad attizzare il fuoco del confronto. Enfatizzati dai media, i giovani dei sobborghi hanno improvvisamente scoperto la loro forza politica, facendo vacillare il governo. Ma intanto stanno pagando un duro prezzo: arresti di massa, condanne detentive con rito sommario, espulsioni. Ora la parola arrogante del potere dovrebbe cedere il passo alla progettualità politica sul terreno, alla creazione di opportunità per tutti; è la condizione per avviare un’inversione di tendenza nella degenerazione delle periferie nelle grandi città ma anche in provincia. L’intenzione di Chirac e del governo di istituire un servizio civile volontario per 50 mila giovani dal 2007 appare in questo senso una novità sbiadita e poco incisiva. Più sfumata è la posizione del ministro della “legge e dell’ordine” Sarkozy. Figlio di un immigrato ungherese, sostiene una politica attiva delle minoranze e di discriminazione positiva nei confronti degli stranieri; preconizza inoltre un rapporto privilegiato con i musulmani. Sono proposte poco “repubblicane”, che gli valgono l’ostilità del centro-destra e il sospetto della sinistra e delle organizzazioni dei migranti. Sull’altro fronte l’energia ribelle e violenta della moltitudine meticcia delle periferie dovrebbe potere avere sbocco nella partecipazione ad iniziative contro la segregazione scolastica e l’esclusione dal lavoro e per la realizzazione di un tessuto di progetti creativi e solidali. Tutti sembrano concordi nel ritenere che il modello francese assimilazionista è in crisi; l’unica via percorribile è quella di un’interfaccia tra la moltitudine delle periferie, le associazioni e lo stato. A chi è sfavorito la collettività si presenta senza prospettive, senza utopie, senza uno spazio di vita comunitaria e di un destino condivisibile. La metropoli deve svilupparsi non soltanto a favore delle classi dominanti e nelle dinamiche di competitività internazionale. Deve crescere anche al suo interno in una prospettiva di integrazione transcomunitaria. In gioco è la ricomposizione di comunità, culture, etnie e religioni diverse in uno sforzo di costruzione del comune, della società. I percorsi potranno essere differenti e tortuosi, e il rischio di esplosioni conflittuali è immanente. Tra la governance economica, sociale e repressiva del potere e la reinvenzione multiculturale della solidarietà, la partita potrebbe però diventare interessante.

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25.11.05

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