La banalizzazione del maggio francese

E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
Fabrizio De André, Canzone del maggio


Da un po’ di tempo a questa parte televisioni pubbliche e private di mezzo mondo dedicano servizi e approfondimenti per celebrare i 50 anni dagli eventi del maggio 68.
Le edicole si riempiono di numeri speciali monotematici. Il Centro Pompidou, uno dei musei più visitati del mondo, dedica un mese di dibattiti, proiezioni ed esposizioni al maggio francese. Svariate gallerie tornano ad esporre alcune delle storiche serigrafie dell’atelier populaire des Beaux-Arts.


All’interno di una ricorrenza che assume sempre più l’aspetto di una bulimia mediatica, interessanti e accurate analisi si perdono all’interno di un calderone “pop” che mischia alla rinfusa hippy, movimento contro la guerra, beat generation, diritti civili. Conflitti sociali e politici vengono appiattiti, quasi pacificati. Non si parla di lotta di classe, ma di ribellione generazionale. Non si menziona l’oppressione di genere, ma si sottolinea l’espressione della libertà sessuale.


Certe posizioni tanto ideologiche quanto faziose, senza un minimo di onestà intellettuale, si sforzano nell’assurdo tentativo di depoliticizzare ciò che non può essere depoliticizzato. Così, un conflitto sociale di massa viene dipinto, in alcuni casi, come un’utopia studentesca.
“Proibito proibire”, “fantasia al potere”, “muri bianchi popolo muto”, “sotto i sampietrini la spiaggia”... gli storici slogan del maggio francese non vengono riproposti come forma di espressione ma come se fossero l’essenza stessa di un movimento.


Secondo il vocabolario Treccani, “un’utopia rappresenta la formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello”. Proprio in questi giorni, troppo spesso, assistiamo passivamente a una narrazione che fa del maggio 68 il simbolo di un’utopia.
Quei giorni un riscontro nella realtà lo ebbero eccome. Secondo la storica Michelle Zancarini-Fournel, ridurre gli eventi di quel periodo ai fatti parigini del mese di maggio impedirebbe una storicizzazione degli eventi, correndo il rischio di ignorare gli scioperi e le proteste di giugno.


Il 22 marzo del 1968, con l’occupazione dell’università di Nanterre, si produceva quella piccola scintilla che avrebbe portato allo sciopero generale e “selvaggio” più grande della storia di Francia. Era il 13 maggio 1968, 7 milioni di lavoratori incrociavano le braccia. Quello stesso giorno a Parigi si aprivano i colloqui di pace fra Usa (allora all’apice delle sue perdite militari) e Vietnam del Nord.


Il maggio francese non rappresenta un’utopia alla quale dobbiamo guardare con nostalgia o paternalismo, ma un movimento che, in un contesto storico e politico decisamente più ampio, ha cercato di cambiare lo stato delle cose presenti. Un movimento inscindibile dalla lotta di classe.

Pubblicato il

16.05.2018 21:17
Pablo Guscetti
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