È difficile sostenere con certezza che a imbottire di esplosivo i due kamikaze che hanno decimato i gruppi dirigenti curdi ad Arbil, nel Nord dell’Iraq, sia stata la mano invisibile di Ankara, quei famigerati servizi segreti turchi che vedono come il fumo negli occhi il costituirsi di un’entità statuale curda nella polveriera irachena, al confine con tre paesi che condividono con Baghdad l’“ossessione curda”: Turchia, Iran e Siria. È altrettanto difficile, però, non pensarlo. Basta leggere i giornali turchi in questi giorni per rendersi conto del grande sforzo diplomatico messo in campo da Ankara per tentare di governare l’insorgenza della questione curda – uno degli effetti più preoccupanti dell’occupazione americana dell’Iraq. L’intenzione di Ankara è condivisibile: l’opposizione alla divisione in tre su basi etniche di quel che resta dell’impero di cartapesta di Saddam Hussein, al sud gli sciiti, al centro i sunniti e al nord i curdi. Decisamente meno nobili le motivazioni della rete diplomatica con Damasco, Teheran, e i rappresentanti sciiti nel governo fantoccio imposto da Bush al paese occupato: stroncare sul nascere l’aspirazione curda a recintarsi uno stato nel cuore petrolifero della polveriera mediorientale.
L’ossessione curda ha anche prodotto una novità nella politica delle alleanze della Turchia: l’allontanamento di Ankara dagli Stati uniti, già al momento della guerra di Bush contro l’Iraq. Il governo islamico “moderato” di Erdogan, sotto la pressione del 95 per cento dei popoli turchi contrari alla guerra, non ha partecipato alla minicoalizione belligerante, fino al rifiuto della concessione del territorio per il passaggio delle truppe Usa. Questa novità potrebbe fornire all’Europa un’occasione per rivedere la sua stessa politica delle alleanza, nell’ipotesi della costruzione di un polo autonomo dal pensiero unico nordamericano. Peccato che l’Europa non esista come entità politica, ma sia solo un’entità monetaria, poco più di un’area di libero scambio, divisa al suo interno tra orgogli nazionali arcaici di chi (Francia e Germania), dopo il no alla guerra, si pone l’obiettivo di entrare nel gran business della ricostruzione dell’Iraq e i paesi storicamente (la Gran Bretagna) o politicamente (l’Italia e la Spagna) subalterni a Washington. Occasione sprecata, dunque.
Quel che resta – in una Turchia segnata pesantemente dalla crisi economica e dove si va a fare la spesa con una borsa carica di banconote senza valore (per un euro ci vogliono un milione e ottocento mila lire turche) e si torna a casa con un pezzo di pane e due cetrioli – è il conflitto tra la cultura kemalista, radicata nelle potenti forze armate e nella borghesia che ancora occupa i principali posti di potere e l’insorgente islamismo, negato o compresso in ottant’anni di autoritarismo “laico”. La sirena dell’Islam fa breccia in una popolazione a cui tutto è negato, lavoro, servizi, democrazia. Eppure, c’è una pratica di dominio antidemocratico della società che lega kemalisti e governo islamico, uniti nella negazione dei diritti fondamentali: si massacrano le opposizioni sociali e politiche turche, le organizzazioni sindacali, la fitta rete di associazioni che si battono in difesa dei diritti umani, contro la tortura. E si accentua la persecuzione dei curdi (un terzo dell’intera popolazione della Turchia) nel sudest dell’Anatolia e nelle grandi città, dove milioni di persone vivono ammassate in quartieri fatiscenti, in fuga dalla fame e dalla distruzione dei villaggi del Kurdistan operata sistematicamente dalle forze speciali di Ankara. L’intero Kurdistan, dall’esplosione della seconda guerra del Golfo, è sottoposto a un’odiosa e feroce occupazione militare, fatta di omicidi, rapimenti, arresti di massa, stupri e violenze.
In questo scenario, le elezioni amministrative di marzo rappresentano una cartina di tornasole per la Turchia. La violenza sembra essere un elemento costitutivo dello stato turco, a prescindere da chi governa il paese. «Dal punto di vista dei diritti umani, nulla è cambiato con il passaggio del testimone dai kemalisti agli islamici», ci dice un sindacalista di Istanbul «momentaneamente libero». Le nuove leggi che timidamente vanno nel senso indicato dall’Unione europea per l’apertura delle trattative per l’ingresso della Turchia «non vengono applicate, per la resistenza dei militari e dell’anima più conservatrice del paese che, anzi, comincia a vedere l’ingerenza europea come il fumo negli occhi». Le resistenze al cambiamento nascondono il tentativo di far saltare le comunicazioni tra Ankara e Bruxelles. Della serie: «Meglio essere primi in un’area che va dal Medioriente alle repubbliche asiatiche ex-sovietiche, che un numero in un’Europa che pretende di spiegarci come dovremmo campare», ci siamo sentiti più volte ripetere ad Ankara e Istanbul. Nello stesso giorno del discorso di Prodi al parlamento turco e dell’incontro con il premier Erdogan, i corpi speciali hanno riempito di botte i prigionieri politici in sciopero della fame (ne sono morti già 107). Lo stesso trattamento è stato riservato agli studenti universitari.
«Ora governiamo 40 municipi – mi dice il vicepresidente del Dehap, Nazni Gur – e puntiamo a conquistarne 120, tra cui 15 centri municipi del Kurdistan. Nelle grandi città abbiamo rapporti con i partiti della sinistra, Shp e Odp e collaboriamo con la sinistra socialdemocratica di Cem», l’ex ministro degli esteri nel governo Ecevit. Le speranze del Dehap sono realistiche, ma devono fare i conti con il rischio che una sentenza sciolga, ancora una volta, il partito di sinistra curdo già messo fuori legge e costretto a rifondarsi con un nuovo nome almeno tre volte. Difficile parlare di elezioni libere, con sindaci arrestati, dirigenti dell’opposizione assassinati o scomparsi, militanti torturati e donne violentate dalle forze speciali.
Il Dehap, i movimenti democratici turchi, le associazioni per la difesa dei diritti umani, hanno un sogno: l’ingresso nell’Ue della Turchia, conditio sine qua non per la sua democratizzazione. Un’Europa non cieca, sorda e muta ma protagonista di una pressione politica per accelerare e rendere fruibili le riforme democratiche. Nazni Gur capisce ma contesta la diffidenza europea: «Se la pena di morte è stata abolita (sulla carta, perché in Turchia si continua a uccidere anche senza processo, ndr), ciò è avvenuto grazie all’intervento dell’Unione europea. Se la Turchia è stata costretta a rifare il processo a Leyla Zana e agli altri tre compagni lo si deve alla condanna della corte di Strasburgo per i diritti umani». Anche se il processo in corso è l’ennesima farsa e si trascina senza ragione (giudiziaria) da mesi, l’atteggiamento delle sinistre curde e turche resta pragmatico. Senza la presenza costante della delegazione del parlamento europeo, ribattono, Leyla Zana sarebbe già stata condannata. Del resto, fu proprio Abdullah Ocalan a lanciare la parola d’ordine dell’Europa come jolly, per «riaprire la partita della democratizzazione e della pacificazione del paese», mi ha ribadito il leader dell’ex Pkk (ora Kongra-gel) in un’intervista concessami attraverso i suoi avvocati. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato, almeno a Strasburgo: il tribunale europeo ha emesso oltre 300 condanne ai danni della Turchia, molte per violazione dei diritti degli imputati e dei detenuti.
Ma la democrazia non è una ricetta che può piovere dall’alto e non nasce per legge, in Turchia come in Iraq o in qualsiasi parte del mondo. La democrazia si nutre di processi reali, pratiche, trasformazioni culturali. Il Dehap, il partito che raccoglie la maggioranza dei consensi nel sudest, è un esempio vivente di maturazione democratica. Parlando con i suoi giovanissimi dirigenti non trovi traccia di tentazioni separatiste, mentre diritti, pace e democrazia stanno diventando cultura di massa. Sindaci e sindache del Dehap amministrano città e villaggi occupati dall’esercito e il partito trova persino il tempo di inviare suoi rappresentati al social forum di Mumbai o a Berlino, all’incontro per costituzione della sinistra europea. È di pochi giorni fa un seminario in Kurdistan con un migliaio di quadri del Dehap per sperimentare il bilanci partecipativo nelle città amministrate.
La strada verso la democrazia
La Turchia in Europa? È una bella contraddizione per la sinistra europea e per chi si batte per il rispetto dei diritti umani: «Non sottovaluto le riforme introdotte che però restano inapplicate, a partire dalle libertà culturali e linguistiche ai curdi. L’agibilità è negata a chiunque venga percepito dall’apparato militare come un pericolo per lo stato autoritario che, in nome della difesa kemalista della laicità, persevera nella prassi della violenza, della tortura e degli stupri, dei sequestri e del rapimento di dirigenti e militanti del Dehap, di democratici, sindacalisti. Ci sono novità importanti nei partiti e nella stampa. Dopo di che – ci dice l’europarlamentare di Rifondazione comunista Luigi Vinci, che da anni partecipa alle delegazioni dell’Ue nei processi politici in Turchia – se un giornalista critica il capo dello stato viene denunciato al tribunale speciale. Gli islamici al governo non hanno portato alcuna novità positiva, sono impregnati dello stesso sciovinismo, della stessa fobia contro i curdi e frenano il processo di democratizzazione. Ma i sindacati, le sinistre, la gente che sgobba, chi si batte per i diritti umani, puntano sull’ingresso nell’Ue, vuoi in funzione della democrazia, vuoi perché sperano di campare meglio. L’unica strada possibile è accelerare il processo di democratizzazione facendo crescere il peso dell’Europa su aspetti come il rispetto dei diritti umani e la fine dell’occupazione del Kurdistan».
Se non sarà l’Europa ad aiutare la Turchia a liberarsi dai suoi fantasmi – e dalla fame – potrebbero ancora essere gli Usa gli arbitri della partita. Il futuro dell’Iraq ha qualcosa a che fare con questa partita. Come ci ha detto Abdullah Ocalan dal carcere di Imrali, i curdi di qualsivoglia nazionalità non possono certo contare su un atteggiamento di “disponibilità” di Washington. Gli Usa si servono dei curdi nel tentativo di piegare l’Iraq e si avvantaggiano per la presenza dei guerriglieri del Kongra-gel, l’ex Pkk, alla frontiera dell’Iran in chiave anti-terrorismo islamico; dall’altro lato, con il sostegno del premier turco Erdogan, inseriscono lo stesso Kongra-Gel nella lista delle organizzazioni terroristiche. Su un punto curdi e turchi vanno d’accordo: non è l’America ma l’Europa nei sogni della popolazione, che al 70 per cento spera in un ingresso del paese nell’Unione. |