La Svizzera e il Sud Africa dell'apartheid

Proprio nei giorni in cui è venuto a mancare Nelson Mandela, l’eroe della lotta all’apartheid sudafricano, è riesplosa in Svizzera la polemica intorno alle strette relazioni d’affari tenute dal nostro Paese con il Sudafrica negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Agendo in quel modo, in aperto contrasto con le sanzioni imposte dall’Onu al Sudafrica, la Svizzera «ha sostenuto il regime dell’apartheid e dunque la sua politica contro Nelson Mandela, contro la lotta per l’uguaglianza e la libertà», ha affermato lo storico Peter Hug che ha collaborato al progetto del Fondo nazionale per la ricerca su “La Svizzera e il Sudafrica dal 1948 al 1994”.

Lo spunto per la polemica è però partito dall’interpellanza con la quale il consigliere agli Stati sangallese Paul Rechsteiner, socialista e presidente dell’Uss, ha chiesto al Consiglio federale di consentire l’accesso ai documenti conservati presso l’Archivio federale riguardanti il Sudafrica all’epoca del regime dell’apartheid. In effetti, benché quel regime fosse caduto nel 1994 e sei anni dopo il Consiglio federale avesse incaricato il Fondo nazionale per la ricerca di studiare, sotto la direzione del professor Georg Kreis, le relazioni Svizzera-Sudafrica dal dopoguerra fino alla fine dell’apartheid, parte della relativa documentazione non è ancora consultabile. E questo perché, dopo una iniziale prassi liberale, nel 2003 il governo ha deciso (“in modo singolare”, secondo Rechsteiner) di impedirne di nuovo la visione.


Il divieto riguarda non i documenti di carattere generale, come lettere, protocolli, atti dell’amministrazione e del governo, ma quelli che riguardano operazioni finanziarie e nei quali sono indicate banche e imprese che hanno tenuto relazioni d’affari con il Sudafrica dell’apartheid. Motivo della negata accessibilità – ha spiegato il Consiglio federale nella sua risposta scritta all’interpellanza di Rechsteiner – è una denuncia collettiva presentata negli Usa contro imprese, tra le quali anche ditte svizzere, che hanno avuto relazioni d’affari con il Sudafrica. Il blocco serve a garantire l’uguaglianza giuridica delle parti svizzere e straniere, poiché all’estero i denuncianti devono ricorrere alle vie giudiziarie per consultare gli atti, mentre in Svizzera sarebbe stato sufficiente presentare una richiesta all’Archivio federale.


La risposta del governo non è bastata a Rechsteiner, che ha chiesto la discussione in aula. Dopo aver ricordato che lo studio commissionato al Fondo nazionale si è dovuto bruscamente interrompere nonostante le energiche proteste del professor Kreis, Rechsteiner ha posto delle domande preoccupanti: «Che cosa diavolo può mai nascondersi in tali documenti? Che cosa li rende tanto esplosivi che vent’anni dopo la fine dell’apartheid non possano venir pubblicati? O si tratta di crimini o di concorso in azioni criminali o di altri fatti riprovevoli, e allora la pubblica opinione svizzera ha diritto di sapere la verità; oppure si tratta di banalità, ed allora sarebbe un’arbitraria messa sotto tutela della pubblica opinione. Le due varianti sono in pari misura intollerabili».


Nella replica, la consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf ha riproposto la spiegazione data dal governo nella risposta scritta, aggiungendo una contorta considerazione sul «mantenimento del principio dello stato di diritto», sulla «democrazia svizzera», sulla «nostra concezione di democrazia» e su «quello che possiamo e non possiamo fare», per dire che si tratta di tutelare l’immagine della Svizzera e della sua piazza finanziaria.
Il negato accesso ad una parte della documentazione custodita dall’Archivio federale, ha detto il professor Kreis alla Rsi, «ha messo in forse tutto il progetto di ricerca» da lui guidato, perché «così non si sa che cosa sia stato negato di vedere» e perché «è in totale contrasto con il mandato conferito dal Parlamento e dal Governo al Fondo nazionale per la ricerca, affinché venga fatta piena luce su questo passato». Ma al di là di questa contraddizione, ciò che alimenta ogni sospetto è la distruzione dei documenti relativi ai contatti tra i servizi segreti dei due paesi. «In effetti sono stati distrutti molti documenti, e la responsabilità ricade su Peter Regli», ha detto nella stessa trasmissione radiofonica lo storico Peter Hug. Regli, che è stato un dirigente dei servizi d’informazione svizzeri, ha però replicato che ha semplicemente eseguito un ordine del Consiglio federale.


Ma perché il governo svizzero si è prestato in passato a mantenere buoni rapporti con un regime razzista e violento, ed oggi a tenere coperti gli affari di banche e ditte elvetiche in Sudafrica? La risposta è ormai nota, anche perché gli stessi protagonisti ne hanno ammesso motivazioni e circostanze. L’opinione prevalente allora negli ambienti politici borghesi e nell’economia era che la Svizzera dovesse impegnarsi prioritariamente per ostacolare l’espansione del comunismo e per difendere la propria neutralità.
Si era costituita una sorta di comitato (informale) di sostegno al Sudafrica dell’apartheid, che sembrava essere l’ultimo baluardo in grado di bloccare le mire dell’Urss in Africa. Ne facevano parte personaggi di spicco implicati sia nella politica sia negli affari, come i futuri consiglieri federali Christoph Blocher e Hans-Rudolf Merz.


Blocher ha pubblicamente ribadito di recente le sue convinzioni a sostegno dei sudafricani bianchi, perché i neri, a suo dire, avrebbero facilmente ceduto ai sovietici.
Di Merz si è sempre saputo che era membro dei consigli di amministrazione di aziende che facevano affari (amianto, maschere antigas) con il Sudafrica.


Quel “comitato d’affari” promosse la fornitura di armi al regime dell’apartheid, come i cannoni della Oerlikon-Bührle e persino le centrifughe della Sulzer per produrre l’uranio arricchito necessario alla costruzione delle sei bombe atomiche di cui l’ultimo capo di governo del regime, Willem de Klerk, nel 1993 ammise di disporre. Ma, come apparve in una caricatura pubblicata da “Le Matin”, «abbiamo una giustificazione: non sapevamo che i diritti umani valessero anche per i neri».

Pubblicato il

18.12.2013 19:11
Silvano De Pietro