Sempre di più, sempre più velocemente, sempre più a buon mercato: questo è l’attuale modello di business nel settore della moda. Ma chi ne paga il prezzo più alto? Le lavoratrici, i lavoratori e l’ambiente. Anche per questo Public Eye ha lanciato in questi giorni una petizione che chiede al Consiglio federale di agire contro quella che è definita la fast fashion e di creare un “Fondo svizzero per la moda”. Obiettivo: obbligare le aziende di moda che vendono capi usa e getta ad assumersi i costi dei danni sociali e ambientali causati dal loro modello di business. In questo modo, per l’ONG, «la Svizzera si impegnerebbe a favore di una moda di qualità, equa e sostenibile». La petizione è sostenuta anche da Unia. «Un mondo più sostenibile è anche nell'interesse del personale della vendita poiché ciò significherebbe meno rifiuti, produzione più equa, clienti più soddisfatti e rivalorizzazione del mestiere» ha dichiarato Anne Rubin, co-responsabile del commercio al dettaglio del sindacato. Unia sostiene quindi la rivendicazione di questo apposito fondo che «obbligherebbe i fabbricanti, gli importatori e i commercianti a contribuire finanziariamente per garantire una maggiore riparabilità e riciclabilità dei prodotti, nonché condizioni di lavoro più eque». Da una parte la filiera della fast fashion è caratterizzata da condizioni di lavoro indegne nei Paesi in via di sviluppo. D’altra parte, una volta consumati in Paesi come la Svizzera, gli abiti usati vengono spediti in altri Paesi in via di sviluppo. Qui finiscono per ingrossare le montagne di rifiuti tessili nelle discariche a cielo aperto o vengono bruciati. Uno di questi luoghi di destinazione dei nostri rifiuti tessili è il Ghana, Stato dell’Africa occidentale. Il Paese riceve tonnellate di rifiuti tessili provenienti dall’Europa. Le conseguenze di questa situazione sono drammatiche, come ha spiegato Yayra Agbofah, imprenditore sociale, che da anni lotta contro l’impatto che hanno i rifiuti tessili generati dalla nostra società consumistica nel Paese africano: «I capi che non possono essere riutilizzati finiscono per intasare i nostri fiumi e torrenti, inquinare le nostre spiagge o accumularsi in immense discariche. Queste montagne di vestiti vengono talvolta incenerite illegalmente, causando anche l’inquinamento dell’aria che respiriamo». Nella notte tra il primo e il 2 gennaio 2025, un incendio ha devastato il mercato di Kantamanto, ad Accra, capitale del Ghana. Kantamanto è il più grande mercato di abiti usati di tutta l’Africa occidentale, dove ogni anno vengono smistati, riparati e rivenduti circa 50 milioni di capi di abbigliamento. L’incendio ha distrutto il 65% della superficie del mercato, che equivale a sei-otto campi da calcio. Circa 3.000 bancarelle sono state distrutte dalle fiamme e centinaia di tonnellate di vestiti sono state ridotte in cenere. Ma la cosa più grave è che migliaia di persone hanno perso il loro mezzo di sussistenza. L’esportazione degli scarti della fast fashion in paesi come il Ghana ha poi un’altra conseguenza: l’impatto sull’economia locale. Yayra Agbofah ricorda che «molte fabbriche tessili hanno quindi dovuto chiudere i battenti». In Svizzera, il Consiglio federale riconosce i problemi posti dalla fast fashion e la necessità di agire per una produzione e un consumo più sostenibili. Tuttavia, rimanda alle misure volontarie adottate dalle imprese e rifiuta di intervenire stabilendo regole chiare. Un approccio giudicato poco incisivo da Public Eye: «I responsabili politici svizzeri tollerano così che diverse aziende vengano estromesse dal mercato da concorrenti senza scrupoli, che non si curano né dell’ambiente né dell’equità». Nel frattempo, l’Unione Europea sta facendo passi avanti, obbligando l’industria della moda a rendere i capi più sostenibili e ad assumersi i costi generati dal modello di business del fast fashion. Per questo, per l’ONG, «la Svizzera deve assolutamente recuperare il ritardo». |