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La Guerra di George
di
Sylvie Antonini Camus
"G.W Bush vs. environment" l’ha battezzata una pubblicazione scientifica. E il riferimento non è solo alla recente decisione del presidente americano, che fa discutere ancora oggi, di non ratificare il protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Di fatto tale passo che ha scandalizzato la comunità internazionale si iscrive in una strategia più ampia. Una sorta di attacco strategico su tutti i fronti, in piena sintonia con i desideri delle lobby più influenti: quelle dell’energia, quelle del settore minerario, delle costruzioni, della chimica. L’escalation di queste ultime settimane è estremamente inquietante anche perché fa luce su un atteggiamento ancora più arrogante che in passato: quello di una potenza che ha scelto, su questioni dove è in ballo il bene dell’intera umanità, un approccio unilaterale e dettato unicamente da considerazioni economiche. Bush antepone semplicemente i profitti delle multinazionali statunitensi al benessere della popolazione e agli equilibri ecologici planetari. L’attacco del presidente all’ambiente non deve sorprendere anche se molti, verosimilmente, si sono lasciati ingannare dalla promessa che l’allora governatore del Texas fece in piena campagna elettorale: in un discorso pronunciato il 29 settembre dello scorso anno Bush annunciò che se fosse stato eletto avrebbe fissato misure restrittive per l’emissione di CO2 da parte delle centrali elettriche. Una promessa che è forse riuscita a fargli conquistare qualche voto (visto quanto successo in Florida può anche darsi che indossando abiti più presentabili per l’elettorato sensibile all’ambiente Bush abbia giocato una carta decisiva) ma che una volta eletto non ha tardato a rimangiarsi. "Non possiamo sottoscrivere un impegno che è contrario agli interessi economici americani" ha spiegato a chiare lettere il presidente. La Casa Bianca non sembra per nulla infastidita dalla valanga di reazioni indignate provenienti dal mondo intero: il nuovo pragmatismo dei repubblicani assume i contorni di un pericoloso unilateralismo. Lo si è visto sulla questione dello scudo spaziale (irrinunciabile per Bush, anche se viola il trattato Abm firmato con la Russia) ed è ancora più lampante in materia ambientale. L’obiettivo che si erano dati nel 1997 a Kyoto i paesi firmatari del protocollo per lottare contro il surriscaldamento del pianeta era quello di ridurre del 5-7% entro il 2012 le emissioni di gas a effetto serra tra cui l’anidride carbonica. L’accordo era certamente imperfetto anche perché, come lo ricorda volentieri la Casa Bianca, esonera i paesi in via di sviluppo. Ma è pur sempre un passo fondamentale in un campo in cui il raggiungimento di compromessi è sempre molto arduo. Il disimpegno americano è considerato catastrofico per una ragione molto semplice : gli Americani sono i principali responsabili dell’inquinamento dell’atmosfera. Rappresentano il 4% circa della popolazione mondiale e producono il 25% dei gas responsabili dell’effetto serra. Il settimanale "The Nation" ha raccontato nei dettagli i retroscena della decisione del presidente illustrando le mosse delle lobby che hanno agito dietro le quinte. Si tratta esattamente delle stesse lobby che hanno ampiamente finanziato la campagna elettorale di Bush. Tra di esse spicca per esempio la Exxon Mobil. Nella sua guerra anti-ambientalista ha adottato una strategia alquanto subdola: ha infatti finanziato degli istituti, formalmente indipendenti come il Science and Environmental Policy Project il cui obiettivo altro non era che quello di gettare discredito sugli organismi internazionali che studiano l’effetto serra, tra cui la National Accademy of Science e l’Intergovernamental Panel on Climate Change creato dalle Nazioni Unite. La Exxon Mobil è così riuscita, di nascosto, a propagandare grazie ad alcuni studiosi lautamente pagati ma che mai avevano rivelato i loro legami con il colosso petrolifero, le teorie secondo le quali le energie fossili non rappresentano alcun serio pericolo per l’ambiente. L’America di Bush rivendica il diritto di inquinare a suo piacimento. E non solo nel settore dei gas a effetto serra. Come detto stiamo assistendo a una e vera propria strategia a tutto campo: dalle foreste alle leggi "clean air" e "clean water" la nuova amministrazione sta smantellando il già debole apparato legislativo costruito dai democratici. Uno dei casi più clamorosi e aberranti è quello delle disposizioni sull’arsenico nell’acqua potabile. Bill Clinton, accetando le richieste degli ecologisti, aveva fissato un limite massimo di 5 particelle di arsenico per miliardo nell’acqua potabile. Non erano passati che tre giorni dalla sua entrata in carica che Bush aveva già abrogato la misura: il limite legale è salito a 50 particelle. "Non esistono prove scientifiche che possano certificare la pericolosità di tali quantità" ha spiegato il portavoce della Casa Bianca reagendo alle domande dei giornalisti increduli. Quando si sa che l’arsenico nell’acqua potabile è addebitabile in gran parte all’industria mineraria e quanto si constata che questa è stata molto generosa con Bush e il suo partito, si possono trarre le adeguate conclusioni. La guerra di George è intensa e si svolge con una serie impressionante di battaglie in simultanea: quella contro le foreste nazionali è agli inizi ma rischia di avere delle conseguenze irreversibili. Il presidente ha preso di mira le riserve di petrolio sotto il parco nazionale dell’Alaska parlando apertamente della necessità di procedere al più presto alle necessarie trivellazioni. E adocchia pure, con espliciti riferimenti, i giacimenti sotto i parchi nazionali di Yellowstone e di Yosemite. Le disposizioni promulgate da Clinton che vietano la costruzione di nuove strade in numerosi foreste protette e di proprietà del governo federale verranno abrogate, fanno sapere i consiglieri del presidente. Si sapeva che Bush governava lo Stato più inquinato del paese e che gli industriali texani del petrolio hanno sempre apprezzato questo politico poco propenso a sacrificare i loro profitti sull’altare della natura. Gli Stati Uniti hanno storicamente sempre avuto un rapporto conflittuale con l’ecologia. Basti considerare l’assenza quasi generalizzata di un sistema di trasporti pubblici. Anche in questo caso l’intervento delle lobby industriali è risultata decisiva. Fu infatti la General Motors ad acquistare a partire dalla fine degli anni 20 le reti ferroviarie urbane da Tusla, Oklahoma a El Paso, Texas, da Chicago a Los Angeles. L’obiettivo fu semplicemente quello di smantellare i binari e distruggere vagoni e locomotive al fine di eliminare qualsiasi alternativa all’automobile. I tempi dello scempio più sconsiderato sembravano chiusi con l’amministrazione Clinton-Gore, che sebbene sensibile ai desiderata delle lobby non aveva completamente dimenticato la protezione dell’ambiente. Adesso con Bush si ritorna alla casella di partenza. La virulenza degli attacchi antiecologici ha sorpreso anche i più pessimisti. La guerra è a tutto campo : il "compassionate conservatism" tanto declamato si traduce nella conservazione dei grandi interessi finanziari ai quali sembra andare tutto la compassione di questo presidente che è riuscito a far peggio, scrive il Washington Post, di tutti i suoi predecessori, Ronald Reagan compreso. La libertà nell’America di Bush è ormai in primo luogo la libertà di inquinare a piacimento.
Pubblicato il
27.04.01
Edizione cartacea
Anno IV numero 14
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