Quando, nel 2000, il vecchio Gianni Agnelli annunciò l’«accordo del secolo» con il gigante dell’auto General Motors si parlò di un nuovo inizio per la Fiat, un nuovo inizio a stelle e strisce dopo i cent’anni pressoché autarchici dell’automobile italiana. Fu una festa di breve durata: dopo meno di due anni esplose la più grave delle crisi della multinazionale torinese, mentre cominciava a vacillare la proverbiale solidità della Gm, squassata dalla tempesta dei fondi pensione. A Torino si avvicendarono presidenti e amministratori delegati del Gruppo e dell’Auto, in un turnover che ha coinvolto una ventina di nomi più o meno illustri. Un piano industriale dopo l’altro senza esito alcuno sui conti disastrati, debiti alle stelle con le banche, scricchiolio dell’alleanza con gli americani. Finché, deceduti i fratelli Gianni e Umberto Agnelli, furono promossi nella sala comando il ferrarista Luca di Montezemolo in veste di presidente e Sergio Marchionne con la carica di amministratore delegato, con il mandato di risanare i conti e avviare la terza – si spera migliore della precedente – stagione della Fabbrica Italiana Automobili Torino. Il risanamento del Gruppo è a portata di mano, per la ripulitura dei conti dell’Auto bisognerà aspettare il 2008. Risanamenti costati lacrime e sangue, licenziamenti e chiusure di stabilimenti, vendita dei gioielli di famiglia, rastrellamento di fondi sul mercato, riconversione del debito con le banche in azioni. Oggi la Fiat è più piccola, pesa meno sull’economia italiana pur restando al vertice del sistema capitalistico tricolore. Finita la stagione dei grandi accordi, garantisce la coppia Montezemolo-Marchionne, è tempo di accordi sui prodotti agendo con spregiudicatezza sul mercato mondiale, con un duplice obiettivo: entrare nei processi di nuova motorizzazione, in Asia in particolare, ma anche in alcune realtà africane ed est-europee; spostare la produzione destinata ai mercati ricchi (europei) in paesi dove il costo del lavoro è basso e i vincoli sociali e ambientali praticamente inesistenti. L’unico aspetto che non turba il Gotha Fiat è il destino del lavoro e degli stabilimenti in Italia. Anzi, le condizioni imposte agli enti locali per il mantenimento delle produzioni a Mirafiori (Torino) o a Termini Imerese (Palermo) è l’esborso di danaro pubblico, tipo l’acquisto di una fetta di uno stabilimento impossibile da saturare al ritmo attuale e prevedibile della domanda (Mirafiori) in cambio del mantenimento di una linea della Nuova Punto a Torino, il modello “apripista” del recupero di credibilità, immagine e vendite della Fiat. Vediamole, le caratteristiche della nuova globalizzazione “povera” dell’automobile italiana (si fa per dire). L’accordo più impegnativo siglato negli ultimi mesi è quello con il gigantesco gruppo indiano Tata, i cui contenuti sono ancora in fase di studio e trattative. Si parla di produzione di modelli comuni motorizzati dalla Fiat e Marchionne non esclude che il destino di almeno uno di questi modelli possa essere l’Italia e l’Europa. Entro l’anno ne sentiremo delle belle. Mentre in Brasile continua il lavoro solitario della Fiat, presente da decenni in quel mercato con una gamma completa di modelli, è in Polonia che si sperimenta il futuro con accordi spregiudicati siglati con partner internazionali: del matrimonio fallito con Gm resta un’unica joint-venture per la produzione di motori multijet in uno dei due stabilimenti polacchi dei torinesi; con Ford, invece, la Fiat produrrà un pianale unico per la Nuova Cinquecento e per la Nuova Ka; a ciò si aggiunge la produzione normale polacca, in testa la Panda anch’essa destinata al mercato italiano e a quelli europei. In Turchia, nella fabbrica di Bursa sul Mar di Marmara, oltre al Doblò Fiat si produrrà un minicargo insieme alla Peugeot, la società francese con cui gli italiani producono furgoni in uno stabilimento italiano (Val di Sangro) e in uno francese. L’ultimo mini-accordo parla magiaro: la Suv Sedici – che non ricorda minimamente la gloriosa Campagnola – sarà prodotta insieme alla Suzuki in Ungheria e commercializzata, naturalmente, in Italia. Poi, ci sono gli accordi con società licenziatarie in vari paesi in cui saranno prodotti modelli Fiat destinati ai mercati locali e di area: in Iran per la Punto, mentre a Kragujevac in Serbia quello della Fiat è un ritorno ai tempi della Zastava – fabbrica distrutta dai bombardamenti “umanitari” del ’99 da parte delle “Forze del Bene”, Italia di centrosinistra compresa. Su licenza, anche qui, verrà costruita la vecchia Punto con ambizione di mercati balcanici. Resistono infine gli accordi e le joint venture in Cina per la produzione di vetture e camion, e in Sudafrica. Accordi di produzione su licenza in Nordafrica e in Vietnam. Ma non è solo la produzione ad abbandonare le amate sponde. Essendo che il settore più penalizzato è quello della ricerca e sviluppo, specialmente in relazione ai nuovi propulsori a basso impatto ambientale, non c’è da stupirsi – da preoccuparsi invece sì – se la Nuova Stilo di fascia C è stata data in progettazione a una società austriaca, la Magma Style di cui è presidente uno degli ultimi amministratori delegati della Fiat Auto, Herbert Demel, liquidato perché ritenuto evidentemente non all’altezza. Vai a capire. Anche uno dei nuovi modelli Alfa sarà progettato da Demel in Austria. Conclusione: quando i conti dell’Auto saranno finalmente in ordine, la Fiat che abbiamo conosciuto non esisterà più. Ci sarà una piccola azienda, poco proiettata sul futuro, molto di assemblaggio effettuato soprattutto all’estero. A quel punto, perché quel che resta in stabilimenti, lavoratori, briciole di ricerca e progettazione, possa vivere, si dovrà scegliere tra due strade: la messa in vendita, oppure un vero accordo internazionale strategico. Due soluzioni negative, tanto per i lavoratori quanto per l’“azienda Italia”. Se a comandare è solo il mercato, la terza via non è data.

Pubblicato il 

02.12.05

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