Intervista

Da anni Sergio Ferrari vive a Berna dove svolge l’attività di giornalista e di militante sindacale. Nel 1978, quando l’Argentina vinse davanti al dittatore José Videla il suo primo Mondiale in casa, era imprigionato nel famigerato carcere di Coronda (ne abbiamo parlato qui). La vittoria ebbe un sapore agrodolce. Poi, nel 1986, visse la Coppa alzata da Diego Armando Maradona nell’anno della mano de Dios e del gol del siglo all’Inghilterra come un segno di speranza per l’intero continente sudamericano. Cosa significa, oggi, questa nuova vittoria per un Paese toccato da profonde difficoltà economiche e sociali? Intervista.

 

Sergio Ferrari, ci descriva le emozioni che ha vissuto ieri dopo una partita incredibile. L’Argentina sembrava avere in mano la situazione eppure è stata rimontata due volte per poi vincere ai rigori…


È stata un’emozione e una gioia incredibile. Qualcosa di “meravilloso”. Va detto che in questa Coppa del Mondo siamo stati abituati a questa altalena amozionale. Ero in Argentina quando la squadra ha perso la prima partita contro l’Arabia Saudita ed è stata una giornata di lutto. Poi siamo riusciti a passare, attraverso anche una sfida molto difficile con il Messico. Con l’Olanda nei quarti di finale stavamo anche vincendo due a zero e ci siamo fatti recuperare per poi vincere sempre ai rigori. In qualche modo, quindi, siamo stati abituati a questa tensione.

 

Che squadra è, questa Argentina?


È prima di tutto una squadra. Questo è stato l’elemento importante rispetto all’ultimo Mondiale in Russia: la presenza di un collettivo, di un gruppo coeso e affiatato. Questo ha fatto la differenza e ha dato una certa tranquillità anche nei momenti di difficoltà estrema come dopo il pareggio di ieri della Francia. Poi, naturalmente dietro a questo gruppo, è emersa la personalità di un giocatore fenomenale come Lionel Messi.

 

Abbiamo visto le immagini da Buenos Aires e dalle altre città. Cosa significa questa vittoria per il popolo argentino?


La prima cosa da dire è che per l’Argentina il calcio è un elemento di identità nazionale. È qualcosa di più che un semplice sport o che un gioco. Sin da piccoli si cresce con la palla in strada, ma anche i settori della classe media e alta giocano a calcio. Con il calcio questa divisione sociale e anche politica della società argentina viene messa in secondo piano. Ero all’Obelisco di Buenos Aires dopo la vittoria con il Messico e con la Polonia negli ottavi di finale ed è stato qualcosa di magnifico perché senti proprio che è una questione di identità nazionale.

 

La vittoria arriva inoltre in un momento storico molto difficile…


Ho constato in Argentina una situazione molto complessa. L’inflazione annua è del cento percento e vi è una situazione d’instabilità economica molto presente, condita anche da forti tensioni sociali e politiche. Questa vittoria ha quindi un senso molto particolare ed è molto speciale: rappresenta una grande gioia in un momento di forte preoccupazione della società argentina. La gente aveva bisogno di trovare una possibilità di festeggiare in questo momento di grande frustrazione economica e crisi sociale.

 

Quando sarà passata l’euforia, però, i problemi resteranno…


Dopo la festa che ci sarà col ritorno della squadra è chiaro che la situazione tornerà alla normalità e alle difficoltà del quotidiano. È vero però che una vittoria di questo tipo per tutto un popolo senza distinzioni sociali è molto importante. Ho anche avuto dei contatti con altri compagni di altri paesi dell’America latina e ho sentito che questa vittoria significa anche una vittoria di tutto il continente. Il senso sociologico è quindi quello di una vittoria di un Paese latinoamericano in una finale contro un Paese come la Francia che anche in America latina è visto come un Paese colonizzatore. Vi è quindi anche questo elemento di identità continentale.

 

Anche per il Brasile?


Vi è una grande storica rivalità sportiva con il Brasile, ma ho ricevuto immagini di grande gioia anche dal Brasile o da amici brasiliani qui in Svizzera.

 

Quando l’Argentina vinse il suo primo Mondiale, il torneo si giocò in casa e al potere vi era la dittatura. Lei, Sergio Ferrari, era imprigionato nel famigerato carcere de la Coronda. Quale è stato il suo sentimento allora?


Io e i miei compagni di prigionia avevamo un sentimento molto contradditorio. Stavamo pagando sulla nostra pelle la brutalità del regime. Non abbiamo potuto né ascoltare né guardare le partite però, quando abbiamo saputo che l’Argentina aveva vinto la finale contro l’Olanda, tutti noi prigionieri eravamo molto contenti. Razionalmente, sapevamo da un lato che questa vittoria poteva servire alla dittatura, ma da un punto di vista umano, come argentini del popolo, eravamo molto felici.

 

Nel 1986 è stata la vittoria di Maradona. Quali ricordi?


In quel momento mi trovavo come cooperante in Nicaragua e mi ricordo la grande gioia del popolo nicaraguense. Abbiamo festeggiato con la gente locale che con questa vittoria dell’Argentina di Maradona ha vissuto una gioia enorme. Mi sono proprio reso conto che la vittoria dell’Argentina è stata la vittoria di un intero continente. Non sarebbe stato il caso oggi se avesse vinto la Francia. Ma lo è stato con il grande cammino del Marocco di quest’anno che è stato rivendicato da tutta l’Africa e anche dai Paesi musulmani.


Nel 1978 era in prigione nel mondiale casalingo, nel 1986 era in Nicaragua a seguire Maradona e nel 2022 era a Berna a vedere la finale con i suoi nipotini. Chissà che emozioni...

 

È stato “molto meravilloso”. Anche il nipotino più piccolo che ha appena due anni e non parla ancora canticchiava olé olé olé. Inizialmente aveva un po’ paura del nonno che gridava molto, ma poi si è lasciato andare a cantare. Per me è stato un regalo della vita vivere questo momento con le tre generazioni, con mio figlio e i miei nipotini. Qualcosa di molto importante è la costruzione delle radici fuori dall’Argentina. E ritorno a quanto ci siamo detti prima: in Argentina il calcio è una questione di identità nazionale. Non sono però molti i momenti come questi di gioia illimitata. Per questo l’emozione che abbiamo vissuto noi qui a Berna, ma tutti i nostri connazionali in ogni parte dell’Argentina e del mondo, è stata qualcosa di indescrivibile.

Pubblicato il 

19.12.22
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