Esteri

Nessuno può dire che cosa accadrà domenica in Catalogna. Per quel giorno è fissato il referendum sulla secessione dalla Spagna e l’indipendenza.

Voluto dal governo di Barcellona (eletto nel 2015, sostenuto dal centro-destra del Partit Demócrata Catalá, dal centro-sinistra della Esquerra Republicana de Catalunya e dalla “sinistra anti-capitalista” della Candidatura d’Unitat Popular riuniti nella coalizione Junts pel Sí con alla testa Carles Puigdemont), che lo considera come parte del diritto all’autodeterminazione dei popoli e del “diritto di decidere” dei catalani. Negato dal potere centrale di Madrid, che lo considera illegale e contrario alla costituzione del 1978.
“Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di repubblica?”. Sì o no.  Solo questo.
In realtà è la sfida – e la crisi – più grande che la Spagna (e la monarchia dei Borbone) si trova ad affrontare dalla morte di Franco nel ’75. Che avrà o avrebbe conseguenze drammatiche sul futuro della Spagna e dell’Europa.


Al momento appare improbabile che il referendum possa svolgersi, o svolgersi regolarmente,  dal momento che il potere centrale – “Madrid”, incarnata nel premier Mariano Rajoy, del Partido Popular erede della destra franchista, nei giudici del Tribunale Costituzionale e, con qualche vago distinguo, anche nel leader dell’opposizione socialista Pedro Sánchez – ha alzato un fuoco di sbarramento legale e pratico difficile da contrastare.


Urne e schede confiscate; denunce e multe contro sindaci e  amministratori catalani; arresto di 14 funzionari della Generalitat; commissariamento dei Mossos d’Esquadra, la polizia catalana; invio di contingenti della Guardia Civil; blocco delle finanze della Regione catalana; dichiarazioni di Rajoy di essere pronto a «tutti gli scenari»; voci di un imminente arresto di Puigdemont che accusa Madrid di avere «sospeso di fatto l’autonomia della Catalogna e aver imposto di fatto uno stato d’emergenza».


Uno scenario sempre più difficile da decifrare. La destra catalana e catalanista al governo a Barcellona contro la destra spagnola e spagnolista al governo a Madrid; la sinistra con pezzi al governo a Barcellona (Erc e Cup), pezzi all’opposizione (il Psc, la branca catalana del Psoe), pezzi in mezzo al guado e divisi al loro interno fra “diverse sensibilità” (Catalunya en Comú della sindaca Ada Colau e En Comú Podem, il ramo catalano di Unidos Podemos, favorevoli al referendum come “mobilitazione” contro Rajoy ma non all’indipendenza unilaterale e invece, sulla falsariga del leader di Podemos Pablo Iglesias, a un “referendum concordato con Madrid e internazionalmente riconosciuto”).


I sondaggi, quasi unanimi, danno (o davano) una forte maggioranza di favorevoli al referendum ma il “sì” in minoranza rispetto al “no”. L’ipotesi più probabile è che il referendum non si faccia o sia palesemente insufficiente per una proclamazione unilaterale dell’indipendenza. In quel caso Rajoy potrebbe addirittura invocare l’articolo 5 della costituzione e mandare l’esercito. Più verosimile che la Generalitat si dimetta e convochi nuove elezioni. Poi si vedrà.


Se l’indipendenza sarebbe un salto nel buio per la Catalogna (intanto, da subito, fuori dalla Ue), sarebbe un colpo tremendo per la Spagna: via la regione più ricca, 16% della popolazione, 20% del Pil, 25% delle esportazioni, 20% del gettito fiscale. Poi  gli effetti sul piano della politica e dell’immagine.
Forse sarebbe bastato un po’ meno di “spagnolismo”. Per esempio accordare anche alla Catalogna un proprio sistema regionale di giustizia e l’autonomia fiscale, ossia la libertà di disporre delle proprie imposte, come accade, fra le 17 regioni, solo nei Paesi Baschi (perché c’era l’Eta?) e in Navarra. Per i catalani è intollerabile versare a “Madrid” più denaro di quanto “Madrid” riversi poi a Barcellona (la differenza è fra i 10 e i 16 miliardi di euro). Ma le richieste in tal senso della Generalitat  furono respinte, nel 2012, da Rajoy.

 

Una “guerra” figlia dell’ottusità di Rajoy

L’ex-ministro socialista Josep Borrell, che si definisce “catalano, spagnolo, europeo”, dice che il voto di domenica è potenzialmente «la più grande crisi costituzionale europea dalla caduta del muro di Berlino». Anche se non la più grave, è innegabile che un’eventuale secessione della Catalogna innescherebbe un effetto domino in Europa che, dopo la sorpresa Brexit, spaventa. Non a caso la stampa spagnola prefigura catastrofi future: dopo la Catalogna gli indocili Paesi Baschi e Galizia, poi una sfilza di paesi europei in frantumi: Francia, Italia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda.


A parte gli scenari apocalittici, la possibile secessione della Catalogna pone problemi reali con la sua trasversalità di posizioni. D’emblée non sembrerebbe male un bello scossone (anche) a una Spagna che non ha mai fatto i conti con il suo passato fascista e a una Unione Europea oscenamente liberal-liberista. Però è vero che anche buona o gran parte degli indipendentisti catalani sono liberal-liberisti…
D’emblée suona bene la possibile Repubblica di Catalogna: potrebbe essere un campanello d’allarme per quei parassiti dei Borbone, franchisti, ladri e (almeno il padre) puttanieri, intaccando uno dei tabù della transizione: l’intangibilità della monarchia.


D’emblée sarebbe bello che una transizione celebrata come un modello e la costituzione del 1978 vista come il libro sacro e intoccabile della democrazia (ma fu toccata in quattro e quattr’otto nel 2011 col voto congiunto Pp-Psoe per inserirvi la priorità del pagamento del debito pubblico) comincino finalmente a cadere in pezzi mostrando quello che sono: il prodotto greve di un passaggio forzato in cui l’antifascismo in cenere dovette rassegnarsi a consacrare le nefandezze del franchismo, a cominciare dall’infame binomio “amnesia-amnistia”.  Però non è affatto detto che la mobilitazione democratica della Catalogna sia l’inizio della fine della transizione  e porti a una modifica sostanziale della costituzione del ’78 che riconosca il carattere “plurinazionale” di popoli e regioni di Spagna in un format federale o confederale dello stato: nel caso Rajoy dovesse vincere la partita con la Catalogna potrebbe ritrovare quella legittimazione che si deve all’uomo che ha salvato la Spagna “unita e indivisibile”.


Questa guerra Spagna-Catalogna forse poteva essere evitata. Nel 2006 il vituperato premier socialista  Zapatero concordò un nuovo statuto in cui si ampliavano i diritti e si riconosceva la Catalogna come una “nazione”. Ma Rajoy, dall’opposizione, fece ricorso al Tribunale Costituzionale che nel 2010 sentenziò che buona parte dello statuto era da buttare, dopo che le Cortes di Madrid, il Parlament di Barcellona e un referendum in Catalogna l’avevano approvato…


Da lì il venticello secessionista-indipendentista si è fatto più forte fino a diventare un uragano. Colpa soprattutto di Rajoy che alle istanze catalane ha risposto solo con una raffica ottusa di no.
Ma forse i due fronti ritengono che la radicalizzazione-polarizzazione convenga a entrambi.
D’emblée, come dice il cantautore catalano Joan Manuel Serrat, “indipendenza è una parola bella che infiamma i cuori dei giovani e mobilita la gente”. Però bisogna anche dire perché e per chi si vuole l’indipendenza: non per perpetuare le politiche della destra liberal-liberista catalana, uguale alla destra liberal-liberista spagnola.


Domenica si capirà qualcosa di più. A parte ogni altra considerazione, sarebbe però una fantastica nemesi storica se fosse proprio Mariano Rajoy, l’erede della Spagna “una, grande y libre” di Franco, a dover gestire il distacco della “repubblica catalana” ribelle.  

Pubblicato il 

28.09.17
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