Il reportage

Via Bologna non è una strada come le altre, a Casal di Principe, comune di poco più di ventimila abitanti a nord di Napoli divenuto tristemente celebre, grazie al best seller Gomorra di Roberto Saviano, per aver dato il nome all’omonimo clan malavitoso. Questo budello stretto e apparentemente anonimo, chiuso da alte mura che nascondono antiche corti risistemate, giardini con le palme e vecchie abitazioni contadine lievitate in ville e palazzine a più piani, è stato il quartier generale dei Casalesi. Una camorra imprenditrice e di estrazione contadina, alleata con la ’ndrangheta calabrese e ramificata in tutto il Nord Italia, che ha investito i proventi dei traffici illeciti nell’Est Europa e ha portato i soldi in Svizzera (nel 2013, in Canton Ticino le furono sequestrati 14 milioni di euro).


Oggi non è più così. La stessa strada può essere considerata il simbolo della rinascita dopo gli anni bui delle uccisioni (nel 1994 fu ucciso persino il parroco, don Peppe Diana, perché si era opposto ai funerali di un camorrista assassinato in un agguato) e della collusione con la politica (l’ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi, Nicola Cosentino, è stato condannato in quattro differenti processi perché considerato il “referente politico” del clan). La chiave di volta per colpire al cuore l’impero economico dei Casalesi è stata la confisca delle loro proprietà e la loro riconversione per usi sociali e produttivi. In questo modo, un pezzo dopo l’altro, stanno cadendo tutte le casematte del clan.


Per questo motivo il tour tra i beni recuperati dalle mafie non può che cominciare da questa strada simbolo. Al civico numero 10 la vecchia abitazione di famiglia degli Schiavone è stata confiscata per metà e per separare le due parti la prefettura di Napoli ha fatto tirare su un muro. Da una parte, vivono la moglie e i cinque figli del boss Francesco, detto “Sandokan” per la somiglianza con l’attore indiano Kabir Bedi che impersonò il personaggio salgariano in una celebre serie televisiva, ora in carcere. L’altra ospita un centro che assiste ragazzini autistici. «È il nostro Muro di Berlino», dice sorridendo Enzo Abate, il fondatore dell’istituto. La responsabile, la dottoressa Imma Chiatto, spiega che è un’«eccellenza» per la sanità italiana perché si sperimentano terapie personalizzate che riducono al minimo l’uso degli psicofarmaci. Poco più avanti, al numero 1 della stessa strada, in una palazzina confiscata al fratello di “Sandokan”, Antonio Schiavone, giovani autistici sfornano pane fresco, biscotti e pasticcini senza glutine, che vendono nella pasticceria al pian terreno. Tra psicologi, psicomotricisti, logopedisti e pedagogisti nei due beni confiscati lavorano 54 persone.


Nuova Cucina Organizzata
Il civico numero 33, l’abitazione del cugino di Sandokan, l’omonimo Francesco “Cicciariello” Schiavone, è ora un asilo nido pubblico. La villa del numero due del clan Mario Caterino, il tesoriere dell’organizzazione, è stata trasformata in un ristorante al quale è stato dato il nome di Nco, Nuova Cucina Organizzata, parafrasando la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, che spadroneggiava in Campania negli anni ’80. Lo chef Nino Cannavale, che ha abbandonato il suo lavoro in ristoranti di prestigio in Trentino e alle isole Eolie per sfidare la camorra nel suo paese d’origine, offre agli avventori le sue creazioni originali, dal pesto al fior di friariello al Dolcebufala, un delizioso dessert a base di mozzarella.


La Nco partecipa al Forum dell’agricoltura sociale, che raggruppa trecento aziende e cooperative del Casertano, e alla Rete di economia sociale, un progetto che ha l’obiettivo di creare filiere economiche alternative su beni confiscati alle mafie e vanta 32 partner e 14 attività lavorative in sette comuni del Casertano ad alta densità camorristica. «Questi luoghi hanno subito per cinquant’anni sfruttamento e devastazione, noi vogliamo far capire alle persone che non devono pensare solo al proprio orto», dicono alla Casa di Alice, una sartoria di Castel Volturno nella quale sono impiegate donne italiane e nigeriane. L’abitazione è stata confiscata a Pupetta Maresca, la “pasionaria” della camorra che fu protagonista di uno dei gesti più eclatanti nella storia dell’onorata società partenopea, al quale si ispirerà il regista Francesco Rosi per il film La sfida: incinta di sei mesi, si vendicò dell’omicidio del marito, il boss Pasquale Simonetti, soprannominato Pascalone ’e Nola, ammazzando in pubblico il presunto mandante.


Non mancano le intimidazioni
Ovviamente, non è tutto rose e fiori. Intimidazioni e minacce sono all’ordine del giorno. «Una mattina ho trovato dei pesci decapitati all’ingresso, un’altra volta ho trovato il cancello d’ingresso a terra e la porta del capannone sfondata: avevano rubato mille litri di gasolio e duecento di olio per motori», racconta Marina Anile, una lavoratrice della cooperativa Valle del Marro, che gestisce uliveti e agrumeti sottratti alle potenti ’ndrine della Piana di Gioia Tauro. Alla Nco ricordano i colpi di pistola contro la serranda del ristorante una notte di Capodanno e in un agriturismo a Monasterace, in Calabria, si vantano di essere sopravvissuti a sette attentati incendiari. A Lamezia Terme, sul Tirreno calabrese, le cooperative legate a Progetto Sud, che gestisce ville e terreni sottratti ai mafiosi, sono continuamente prese di mira dalle cosche.


Le furberie dei malavitosi
Spesso, i metodi utilizzati dalle mafie per tornare in possesso delle loro proprietà sono più subdoli. La cooperativa che produce mozzarelle “anticamorra” in una masseria a Castel Volturno utilizzata come deposito di sigarette di contrabbando dal boss Michele Zaza, noto per le serate mondane nelle sue ville di Parigi e Beverly Hills, si è accorta che il colono al quale il tribunale aveva provvisoriamente affidato la struttura e i terreni era un personaggio vicino al clan. Il problema – spiegano nell’ex palazzo dei boss Versace a Polistena, trasformato in un ambulatorio, gestito dall’associazione di medici Emergency, che cura gli africani che raccolgono gli agrumi nella Piana – è che tra il sequestro, la confisca e l’assegnazione di un bene confiscato spesso passano molti anni, ed è sul fattore tempo che contano i malavitosi per rientrarne in possesso. Ciononostante, l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata conta ben 12.480 tra immobili e imprese restituiti alla collettività. Numeri di rilievo, ma che rappresentano appena il 10 per cento dei beni sottratti alle mafie e in attesa di una destinazione. Negli ultimi anni, il fenomeno ha abbracciato pure il centro-nord. A Roma, la Villa Osio con l’annesso parco, appartenuta al cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti, è stata trasformata nella Casa del jazz e ospita concerti tutto l’anno. A Milano la casa di “alta moda etica” Cangiari ha aperto il suo showroom in un bene confiscato, dopo aver recuperato una villa di un mafioso a Marina di Gioiosa Jonica, in Calabria.


È in questo paese dell’estremo sud-est della Calabria che si trova la sede del gruppo Goel, proprietario della griffe “etica”. Con i suoi 201 dipendenti e le decine di collaboratori, è una realtà economica importante in una zona ad elevata presenza ’ndranghetistica. L’ideatore, Vincenzo Linarello, da anni studia il fenomeno della ’ndrangheta. Seduto alla scrivania del suo ufficio, spiega che l’economia mafiosa non sfugge alle regole dei “capitalismi selvaggi”, per cui «il 90 per cento delle risorse finisce nelle mani del 10 per cento degli affiliati». Il giornalista Antonio Nicaso e il pubblico ministero antimafia Nicola Gratteri hanno scritto in “Fratelli di sangue” che oggi il fatturato delle ’ndrine ammonta al 2,9% del Prodotto interno lordo italiano, «più della ricchezza prodotta da un paese produttore di petrolio come il Qatar», mentre la Calabria si trova agli ultimi posti in Italia per reddito e occupazione. Per distruggere questo sistema, bisogna «dimostrare che si può lavorare anche senza passare attraverso i mafiosi», afferma Linarello. Loro ci stanno riuscendo, come sta accadendo in altri feudi mafiosi, da Casal di Principe in Campania a Corleone in Sicilia. Qui, nei poderi dove il capomafia Totò Riina dirigeva i summit mafiosi, nelle terre dove Bernardo Brusca costruiva la cantina vinicola per riciclare il denaro sporco dei corleonesi e nei luoghi dove Bernardo Provenzano viveva prima di darsi latitante per 43 anni, oggi si producono pomodori, ceci, grano, olive e vino biologici, esportati, con il marchio Libera Terra, in tutta Europa, Svizzera compresa.

Pubblicato il 

30.05.18
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