"L'urlo", o il senso dell'handicap a teatro

Ci sono tre modi per portare l’handicap fisico o mentale a teatro. Il primo, che ragiona per categorie, mette in scena la persona handicappata se ed in quanto a quell’handicap corrisponde un ben definito ruolo: è l’approccio classico del teatro, per cui nei panni di Re Lear ci dev’essere un uomo anziano e in quelli di Giulietta una ragazza quasi adolescente. Il secondo modo, pietosamente buonista, mira invece quasi per paradosso alla negazione dell’handicap, o per lo meno a farlo dimenticare nel momento dell’illusione scenica: l’ideale in questo genere di approccio è che si arrivi allo stupore, che si dica «non sembra nemmeno averla, quella menomazione, tanto è stata ben mascherata». Il terzo e ultimo modo infine considera il corpo handicappato come una risorsa, e mira a valorizzare ciò che di specifico ha questo corpo a fini puramente espressivi: per questo approccio, certamente il più difficile dei tre, ha senso portare in scena una persona menomata unicamente se con questa operazione si possono produrre significati ed emozioni che soltanto lei e nessun altro possono dare. È la terza via quella che ha scelto, con risultati per ora interessanti ma che potrebbero diventare del tutto convincenti, il regista ticinese Antonello Cecchinato nello spettacolo “L’urlo” messo in scena con Mario Cavallo, Gaby Lüthi e Giancarlo Sonzogni in una produzione dei Giullari di Gulliver. La prima, cui si riferiscono queste note, ha avuto luogo ad inizio ottobre. Protagonista è il ventinovenne Cavallo, affetto da sindrome di Down, un attore che Cecchinato conosce molto bene per aver lavorato con lui durante diversi anni nell’allestimento degli spettacoli della colonia estiva dei Lazzi di Luzzo. “L’urlo” rappresenta un evidente salto di qualità nel loro lavoro teatrale verso un’esperienza laboratoriale. Il tema scelto sui cui lavorare, a partire dal novembre dello scorso anno, con cadenza settimanale, è quello della guerra: «nei primi incontri le improvvisazioni di Mario sono state molto libere, a partire da diversi oggetti anche molto quotidiani e banali», racconta Cecchinato. Su quelle improvvisazioni a poco a poco hanno cominciato ad intervenire gli altri due attori, Lüthi e Sonzogni, portando anche idee e materiali propri e più individuali. Poi, dopo una selezione dei diversi momenti espressivi accumulati nel corso delle prove, si è progressivamente costruita una struttura drammaturgica elaborata, che si è affinata man mano che, con musiche e oggetti scenici, si stava definendo anche lo stile. Il risultato è una successione di quadri sul tema della guerra e della sua assurdità, nei quali alla presunzione di onnipotenza dell’uomo sempre finisce col contrapporsi la sua intrinseca fragilità: ed è proprio da questa dicotomia che può nascere un momento di poesia, il quale a sua volta lascia intravedere la possibilità di un modo di vita fondamentalmente non violento. Lo stile dello spettacolo è fortemente espressionista, nella scia delle avanguardie teatrali dell’ultimo trentennio: in scena è l’emozione che, facendosi corpo e movimento, s’impone allo sguardo. Quello che è stato sviluppato con Cecchinato è un teatro di movimento, un teatro del corpo, e solo in seconda battuta un teatro di parola, una parola che per altro raramente va intesa nel suo significato diretto, ma quasi sempre per la sua capacità evocativa. Così assume pieno e profondo significato la scelta di un attore affetto da sindrome di Down: perché è soltanto con quel corpo e da quel corpo che può venire quel tipo di movimento un po’ legnoso e un po’ esitante, perché è soltanto da lì che possono svilupparsi dei ritmi scenici così rarefatti, dei momenti di sospensione così anomali eppure profondamente espressivi, ed una voce unica nella sua congenita incertezza. O, per dirla con Pippo Delbono, soltanto un attore con handicap è naturalmente sincero, «perché il suo corpo non può mentire». I quadri si susseguono per associazione o per contrapposizione di idee e di immagini, creando spesso momenti emotivamente molto forti grazie anche alle musiche e agli oggetti scenici spesso usati nella loro valenza simbolica, e alle suggestioni che, quasi per contrappunto a Cavallo, creano Lüthi e Sonzogni con i loro interventi. “L’urlo” è uno spettacolo con un potenziale molto vasto e in larga misura ancora da scoprire. Perché, almeno nella versione della “prima”, esso è ancora un po’ esitante fra il desiderio di lasciare spazio espressivo a Cavallo e le inderogabili leggi dell’arte scenica, che impongono grande attenzione nella progressione drammaturgica e un ferreo controllo dei tempi e dei ritmi scenici. Cavallo dal canto suo dimostra che su un palco può starci anche bene: ora occorre che il lavoro con lui venga portato sulla strada del rigore, come rileva Cecchinato, perché possa controllare la sua esuberanza garantendo costantemente nei diversi quadri la qualità che è stata individuata nelle prove. Repliche sono in programma sabato 9 novembre alle 20.30 e domenica 10 novembre alle 17.30 al Teatro del Chiodo di Bellinzona e venerdì 22, domenica 24 novembre alle 20.30 allo Studio Foce di Lugano e ancora in altre date successive.

Pubblicato il

01.11.2002 10:00
Gianfranco Helbling