L’ossessione della crescita

Ogni trimestre siamo informati su quel mito-mistero che si chiama pil. È assurto a tale importanza che ormai si pronuncia solo l’acronimo (pil) senza più allungarlo in parole chiare (prodotto interno lordo). Non si sa quanto possa capire la gente comune del significato o del valore di quelle percentuali che girano attorno allo zero: un aumento trimestrale dello 0,5 per cento, com’è per l’ultima segnalazione, è comunque venduto come un risultato di cui si può già stare lieti.


Il pil indica il valore dei beni e dei servizi prodotti  nel paese in un anno, beni e servizi destinati al consumo, agli investimenti privati e pubblici, alle esportazioni. È diventato una misura della performance economica complessiva  di un paese e un metro per valutare l’efficacia o meno delle politiche economiche.


C’è una sorta di ambiguità attorno al pil. Poiché rappresenta la ricchezza creata nel paese, c’è la tendenza da un lato a farne un parametro condizionante per determinate politiche, d’altro lato ad esaltarne il significato quando cresce, una medaglia al valore per governanti, politici, ideologia politica dominante.


Nel primo caso serve ad una argomentazione che va per la maggiore: non puoi distribuire ricchezza e non puoi pretendere di ripartirla per correggere disparità di reddito e diseguaglianze se prima non hai creato e accumulato ricchezza. Così ci dicono e ripetono economisti intruppati, ambienti economici, politici borghesi. E ci si crede, perché sembra cosa logica. In realtà si vende un buon sofisma: c’è apparenza di verità ma sotto si cova l’inganno. Primo, perché si tireranno sempre fuori competitività o produttività per dire che non si crea ancora abbastanza ricchezza, non si accresce il pil.

 

Secondo, perché ci si appiglia appunto al pil, ai suoi movimenti percentuali attorno allo zero, per  far passare veri e propri allarmi. Come ad esempio: c’è una sproporzione catastrofica tra spesa pubblica e crescita del pil, tra spese sociali e pil, tra pretese salariali ed evoluzione del pil. Basterebbe pensare che più del 60 per cento del pil è alimentato dai consumi di beni e servizi, anche sociali, delle economie domestiche per capire dove sta il sofisma (è il reddito da lavoro, sono i salari, è la ripartizione e non la concentrazione della ricchezza, che alimentano i consumi e quindi il pil).


Nel secondo caso si è giunti recentemente ad una costruzione statistica-economica-politica-etica del pil che da un lato ne dimostra le assurdità e d’altro lato la paranoia a cui ha portato. Poiché si è martirizzati da ormai un decennio dalla necessità di dimostrare che si cresce ancora economicamente, che la crescita non ha limiti, che il pil nonostante tutto (crisi, austerità, deflazione) può ancora spingersi verso l’alto, si è giunti alla bella trovata che nel pil, per gonfiarlo, va inclusa l’economia criminale: prostituzione, contrabbando, usura, spaccio di droga. La stessa revisione di calcolo prevede che le armi siano considerate un investimento, alla stregua di qualsiasi macchina o capannone. In tal modo si farà crescere di qualche punto (chi dice 2, chi addirittura 10) la percentuale del pil.


Purtroppo queste non sono bizzarre innovazioni metodologiche di statistici. Sono criteri politico-economici-etici che stanno imponendosi e che di certo peggioreranno non solo le politiche economiche o le condizioni di vita sostenendo un modello di sviluppo già catastrofico, ma promuoveranno come utile e salvifica la criminalità. Insomma, rubate, vi sarà dato e crescerete.

Pubblicato il

18.06.2014 11:45
Silvano Toppi
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