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L'ora del pardo: intervista a Marco Solari, presidente del Festival del film di Locarno |
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A un mese dall’inaugurazione del 54° Festival internazionale del Film di Locarno (2-12 agosto 2001), il nuovo presidente Marco Solari spiega verso quale direzione la kermesse cinematografica si sta muovendo.
Presidente Solari, se lei dovesse scegliere una definizione direbbe che il Festival di Locarno è la più importante manifestazione culturale svizzera o il più potente veicolo di marketing per il Ticino?
Una definizione non esclude l’altra. Locarno è con il festival del jazz di Montreux la manifestazione con il maggior irradiamento in Europa e nel mondo e di conseguenza è, a saperlo far fruttare, un potentissimo ed efficientissimo veicolo di marketing per il Ticino. Prima di ogni marketing però c’è sempre il valore del prodotto.
Con l’avvento del duo Bignardi-Solari al vertice il Festival ha decisamente cambiato regime. Che novità sostanziali si può aspettare il pubblico a partire dal prossimo 2 agosto? In altri termini: la prossima sarà un’edizione di transizione oppure la prima del "nuovo regime"?
Non si inizia mai un nuovo ciclo con una rivoluzione. Ma qualche leggera novità, qualche cambiamento di indirizzo, più di forma che di sostanza, potrebbe magari già essere avvertito. La squadra che prepara il Festival parte decisamente con l’aspirazione di far bene. Ciò vale per il contenuto, del quale è responsabile la direzione artistica, come per gli aspetti organizzativi e "politici", per i quali assumo una responsabilità più diretta.
Malgrado questo ricambio ai vertici, il Ticino "intellettuale" sembra essersi del tutto disinteressato del Festival: nel Cantone nell’ultimo anno s’è pubblicamente discusso soltanto di soldi, mai di contenuti, di impostazione, di obiettivi culturali della rassegna. Forse negli anni ‘70 c’era l’eccesso contrario, ma non la preoccupa questo disinteresse critico?
Ci sono le priorità. Ma ci si rende conto in quale situazione finanziaria si trovava il Festival? Lanciare dei dibattiti intellettuali con due milioni di debiti e senza prospettive di risanamento sarebbe stato da incoscienti. La prima priorità da risolvere era quella di comporre la nuova direzione artistica. Problema che abbiamo dovuto affrontare dopo che Marco Müller ha deciso di rassegnare le dimissioni e sulle quali è rimasto irremovibile anche dopo un colloquio con me. E poi me lo lasci dire: a me non sembra per niente che ci sia un disincanto intellettuale. Al contrario. La discussione è aperta e vivace come lo dimostra l’interesse e l’attenzione della stampa anche internazionale negli ultimi mesi.
Con il recente voto del Gran Consiglio, che ha stanziato per il Festival 13 milioni di franchi sull’arco di 5 anni, il Cantone è diventato di gran lunga lo sponsor principale della rassegna. Il suo predecessore Giuseppe Buffi amava dire che il Festival prima che internazionale dovesse essere svizzero. Ora diremo che il Festival è prima di tutto ticinese?
Questo è un festival internazionale che ha luogo nella Svizzera italiana e che è finanziato prevalentemente dal Cantone, dai comuni del Locarnese, dalla Confederazione e dagli sponsor privati. Ovviamente anche se il festival ha delle profonde radici nel Ticino e nella Svizzera, esso deve guardare al mondo, pena la provincializzazione e dunque rapidamente la banalizzazione e la morte.
Il dibattito in parlamento non ha risparmiato critiche alla gestione finanziaria del Festival, ad alcuni apparsa negli ultimi anni troppo allegra. In effetti nel 2000 s’è registrato un deficit di 1,7 milioni su un preventivo di circa 5 milioni. Forse a queste difficoltà non sono estranee le ripetute partenze dei vari responsabili della gestione amministrativa. Che garanzie è in grado di dare oggi che simili disavanzi non si ripeteranno in futuro?
No, ho visto i conti degli scorsi anni e ho constatato che non c’è stata in passato alcuna spesa allegra. Chi afferma questo lo fa senza cognizione di causa. Penso che il problema degli ultimi anni sia stato piuttosto quello di non essersi resi conto del costo effettivo di un Festival internazionale. Il contributo del Cantone ci mette nella situazione di potere operare almeno per ciò che concerne l’edizione del 2001 con una certa tranquillità ma per far quadrare i bilanci ci vogliono anche gli sponsor che pagano complessivamente circa 2,5 milioni di franchi. Ad agosto tutti e quattro gli sponsor principali mi dovranno confermare se continuare o meno per le prossime edizioni. E se dovessero ritirarsi? Come faremo a sostituirli? Questa è una grandissima preoccupazione se penso al 2002. È comunque assolutamente evidente che ho assicurato ai nostri finanziatori pubblici e privati sin dal primo giorno di lavoro, severità e rigore nella gestione del festival.
Non si è andati molto lontani dal lancio di un referendum contro la decisione del parlamento, in particolare da parte della destra populista che, in Ticino, spesso condiziona il dibattito politico. Lo temeva un voto popolare?
Il Festival non ha solo un altissimo valore culturale. Il suo indotto economico per il Locarnese (e per il Ticino) è altissimo. Lanciare il referendum contro il festival significa andare contro una regione nel Ticino che economicamente non è privilegiata. Per questi motivi non temevamo un referendum.
Il gruppo socialista in Gran Consiglio ha chiesto che l’italiano sia la lingua ufficiale del Festival. La ritiene una richiesta pertinente?
Di fatto l’italiano è molto usato al Festival. Io lo utilizzerò probabilmente ancor più perché penso sia anche una manifestazione (magari modesta) di resistenza culturale. Ma devo anche essere pragmatico. Ci sono situazioni dove è comodo utilizzare il francese quale lingua ufficiale, l’inglese o il tedesco.
Quest’anno saranno non più due ma quattro gli sponsor principali del Festival che si contenderanno l’attenzione del pubblico della Piazza. Qual è il limite che pone alla commercializzazione del "prodotto Festival"? E con quattro sponsor principali siamo al limite?
Non si può pensare che un Festival del Film in concorrenza con altri festival che dispongono di mezzi finanziari importanti, possa sopravvivere solo grazie ai contributi pubblici. Se vogliamo garantire la qualità di contenuto abbiamo assolutamente bisogno della disponibilità dell’economia privata. Io non vedo perché questi mezzi non debbano venire anche in Ticino dopo che molte manifestazioni in Svizzera tedesca e francese ne approfittano. Mi sembra però abbastanza ovvio che chi investe nel nostro caso centinaia di migliaia di franchi possa esigere perlomeno una determinata visibilità di presenza. Certo, ci vuole sempre anche discrezione e se possibile una certa eleganza. Mi sembra che a Locarno anche quest’ anno, come già in passato, ciò sia garantito. Gli sponsor e partner principali sono quattro (Ubs, Swisscom, Atel e Swatch) più Manor sponsor della retrospettiva più diversi altri sponsor che aiutano ad abbattere i costi. Purtroppo non possiamo aumentare il numero degli sponsor principali, anche per una questione di visibilità degli stessi.
Nel corso degli anni ‘90, con il crescere del Festival, s’è assistito ad un progressivo distacco fra i percorsi degli addetti ai lavori e quelli del pubblico comune, che si è visto sempre più ridurre da "spettatore attivo" a "massa passiva". Sono possibili dei rimedi?
Non condivido assolutamente questa valutazione. Una delle grandi forze di Locarno è la straordinaria convivenza tra specialista e pubblico. È una delle particolarità di Locarno che ci viene riconosciuta universalmente ed è più viva che mai. Facilitare il lavoro allo specialista non significa sfavorire il pubblico.
Le strutture del Festival, sia per gli addetti ai lavori che per il pubblico, sono da alcuni anni al limite: è ancora ipotizzabile un’ulteriore crescita quantitativa, o lo sviluppo dovrà andare in futuro in un’altra direzione, e quale?
No, non penso sia giusto puntare su una crescita quantitativa del Festival di Locarno. Miglioramenti strutturali però dovrebbero essere possibili. Manca come minimo una sala di una certa dimensione. Il consiglio direttivo del festival si chinerà insieme con la direzione operativa sulle strategie da seguire.
Lei ha progressivamente celebrato il "funerale" della tenda sulla rotonda di Piazza Castello, che al Festival avrebbe probabilmente creato più problemi di quanti non ne avrebbe risolti. Rimane il fatto che la rassegna ha un urgente bisogno di sale di dimensioni medie, da 1’000 o 1’500 posti. Perché se Lucerna trova oltre 200 milioni per una sala da concerti, il Ticino non riesce a trovarne 20 per un dignitoso palazzetto del cinema?
Considero il progetto Galfetti, così come proposto, un progetto difficile. È fuori dubbio che il futuro del Festival si giocherà anche sulle strutture e dunque il discorso Piazza Castello non va affossato. Forse è utile procedere a tappe: "le mieux est l’ennemi du bien". È possibile che si debbano ridimensionare certi sogni per avere qualcosa di concreto. Passato il Festival sarà un altro problema prioritario del quale sarà investito il Consiglio direttivo e la direzione operativa.
Venezia raddoppia il Concorso mentre Locarno rinvia l’attuazione di un innovativo progetto legato a Internet. Non c’è il rischio di perdere il treno nei confronti della concorrenza?
Si, anche perché Venezia è attivissima. Ma sicuramente questa aggressività veneziana lungi dallo scoraggiarci ci stimola. Per noi "benchmark" punto di riferimento devono comunque rimanere i grandi festival.
La struttura giuridica del Festival (la "Trägerschaft") è sempre più inadeguata: a quando lo scioglimento dell’Associazione e la costituzione di una Fondazione, come preconizzato da Buffi?
È una questione importante e aperta ma non è prioritaria. L’affronteremo in Consiglio direttivo e in Consiglio di amministrazione solo dopo questa edizione.
Posto di fronte all’alternativa se uscire a cena con Irene Bignardi oppure con Marina Masoni, cosa deciderebbe?
Sono due donne affascinanti. Una cena a tre sarebbe da tutti i punti di vista una serata riuscita.
Le mie scelte: donne e cinematografia secondo Irene Bignardi, direttrice artistica del Festival del cinema di Locarno
Di Claire Fischer*
Dopo essere stata membro della giuria ufficiale del Festival del film di Locarno, Irene Bignardi vi fa ritorno, quest’anno, nei panni di direttrice. Al suo fianco troviamo Teresa Cavina, vicedirettrice, che già da qualche anno lavora alla manifestazione. Due donne, un Festival: che il Pardo si stia tingendo di fuchsia? Vediamo cosa pensa in proposito la neo-direttrice.
Come vede il ruolo della donna nell’ambito della produzione cinematografica attuale?
Devo ammettere che recentemente, in una marea di film quasi avvilenti, vedo qualche segno confortante. Ho visto di recente un film tedesco-greco L’estate di Anna, di Jeanine Meerapfel, dove Angela Molina ha un bellissimo ruolo centrale e mostra orgogliosamente tutte le sue rughe senza un filo di make-up. Si potrebbe pensare che è così perché l’autrice è una donna. Ma ho visto recentemente Sous le sable di François Ozon, dove Charlotte Rampling si espone allo stesso modo, e The deep end, un bel thriller anomalo presentato al Sundance, dove Tilda Swinton ha il ruolo di una madre borghese che difende con le unghie coi denti suo figlio, vent’anni, da uno scandalo. Sono ruolo importanti, centrali, dove le donne non sono certo delle bambole, delle bambine o degli oggetti del desiderio. Speriamo che segni un’inversione di marcia.
Riscontra nel suo settore ciò che le femministe nord-americane chiamano backlash? Mi riferisco anche ad un articolo apparso mesi fa sul settimanale francese "Marianne" che sottolinea il ritorno in forza della donna-oggetto nella stampa femminile?
No, francamente mi pare che nel cinema si sia comunque fatto un continuo percorso avanti — a meno che non ci si riferisca al cinema femminista militante, che è quasi scomparso di fronte al cinema femminile mainstream.
Nel momento in cui selezionate un film, l’immagine della donna, la sua dignità in quanto essere umano, diventa criterio di scelta?
Naturalmente. Considererei sciocco e offensivo selezionare un film che tratti il ruolo della donna in maniera superficiale o sessista. Questo significa purtroppo che un buon numero di film a priori non possono funzionare per noi. A meno che non capiti, ma mi pare improbabile, un capolavoro misogino... Agli artisti si perdonano molte cose.
Secondo lei esiste un linguaggio cinematografico specificamente femminile? E se sì, come potrebbe definirlo?
Credo che si tratti più di sensibilità che non di linguaggio. E anche lì, vedendo Point Break di Kate Bigelow lei sarebbe in grado di dire che è stato girato da una donna? Non credo proprio. È "l’animus", o il progetto ideale che sta dietro il film , a determinare la sua valenza "femminile". E devo aggiungere che si tratta di una questione sulla quale si potrebbero aprire discussioni, tavole rotonde e dibattiti. Anzi, ne vogliamo organizzare uno?
In che modo si può incrementare la produzione femminile?
C’è un solo modo. Anzi, due. Sperare che le donne facciano dei bei film. Andare — noi, i nostri morosi, i nostri figli — a vedere i film fatti dalle donne.
Quali criteri di selezione ha privilegiato?
Il mio solo criterio, e quello della mia squadra, è stato quello di cercare dei buoni film. Meglio, dei bei film, originali, nuovi, onesti. Sperando che l’annata sia buona.
Che genere di cinema desidera farci scoprire?
Se vuol sapere il tipo di film che vorrei poter avere... be’, vorrei avere uno, dieci, cento Tutto su mia madre. È il film che più mi ha toccato negli ultimi anni, coraggioso, originale, strano, commovente. Se ci fosse la possibilità di scoprire un Almodovar sarei certo felice.
Come si situa in relazione al movimento femminista?
Sono stata femminista ai tempi in cui la militanza era necessaria. Ora, in tempi più tranquilli, faccio ogni giorno esercizio di indipendenza, libertà di giudizio, autonomia. Non so dove questo mi collochi, ma so di certo che la condizione mia e delle donne che vivono in Europa e in America è, grazie anche alla nostra agitata militanza di un tempo, certamente migliore di quanto non fosse quarant’anni fa, ai tempi di La mistica della femminilità. "We’ve come a long way", come diceva una famosa pubblicità di sigarette. Credo anche che gli uomini siano cambiati. I coetanei di mio figlio, che ha vent’anni, non si sognano di avere l’atteggiamento gentilmente "sessista" che avevano i miei coetanei. Sì, di strada ne è stata fatta. Questo non vuol dire che non ci sia ancora moltissimo da fare, per gli altri, per le altre, per le donne — dall’Iran all’Africa all’Afghanistan — che vivono in condizioni culturalmente e politicamente difficili. È anche attraverso il cinema e la consapevolezza che diffonde se questi temi e questi problemi sono entrati nella coscienza collettiva. Anche grazie ai film fatti da uomini, come Il cerchio, il bellissimo film premiato lo scorso anno alla Mostra del cinema di Venezia....
L’intervista è già apparsa sul periodico "Femmes en Suisse".
Le bici pardate: dall'atelier della ri-cicletta del Soccorso operaio svizzero
di Generoso Chiaradonna
Fra un mese torneranno ad animare, silenziosamente, il lungo lago e le strade di Locarno. Si mescoleranno tra la folla di appassionati cinefili, turisti e curiosi ma sarà impossibile non notarle. Sono le recenti invitate al Festival internazionale del cinema di Locarno, ma si stanno ritagliando uno spazio tutto loro. Stiamo parlando delle coloratissime biciclette, maculate, con il logo del festival che anche quest’anno, la quindicina di partecipanti al programma occupazionale dell’"atelier delle ri- ciclette" (riciclo di biciclette) del Soccorso operaio svizzero stanno preparando allo scopo di metterle a disposizione del pubblico e degli operatori del festival affittandole o vendendole. Lo scorso anno alcuni registi e attori se ne sono tornati a casa, oltre che con le immagini del Film festival, anche con l’originale due ruote in ricordo. "L’atelier della ri-cicletta del Soccorso operaio svizzero nasce, cinque anni fa — racconta Pietro Di Conza, responsabile dell’atelier — dopo la chiusura della fonderia Monteforno di Bodio, per far fronte al problema del reinserimento professionale degli ex dipendenti". "L’idea iniziale — continua Di Conza — era quella di favorire il riciclo, o meglio il riutilizzo, di biciclette da rottamare, sull’esperienza di progetti nati e sviluppatesi anni fa in Svizzera interna e nel contempo, stimolare e far ripartire dinamiche positive nei confronti del lavoro da parte di persone che l’avevano perso". Quella di quest’anno è la terza edizione del Festival del film di Locarno a cui il Sos partecipa in veste di "fornitore ufficiale di biciclette leopardate" ma non è l’attività principale dell’atelier. "Il nostro scopo è dare lavoro e soprattutto confidenza in stessi a persone che per varie ragioni, si trovano temporaneamente espulse dal mercato del lavoro. Farlo, avendo come vetrina la più importante manifestazione cinematografica svizzera — dice con orgoglio Di Conza — è sicuramente di maggiore stimolo e soddisfazione, per chi è occupato in questo progetto. Anche questo rientra in una logica di reinserimento sociale per dare senso al lavoratore e al lavoro". E soprattutto con la piena soddisfazione degli organizzatori. È quel valore aggiunto non quantificabile ma che è importantissimo per far riprendere confidenza in se stessi. L’attività del laboratorio è finanziato interamente dalla Legge sull’assicurazione malattia (Ladi), anche se non tutti i partecipanti sono persone strettamente disoccupate, e durante il resto dell’anno si occupa, oltre di riparare e vendere biciclette, anche di attività a carattere educativo per le scuole. "Far capire ai ragazzi — dice Di Conza — il valore del riciclaggio, attraverso la constatazione con i propri occhi della trasformazione di una vecchia bicicletta in una nuova dimostra, in modo immediato, che il valore di un oggetto può essere ripristinato".
Il Festival del racconto ad Arzo
"...Io avevo una nonna analfabeta che era una grande raccontatrice di favole e di magia, di stregoneria...(...). Perdevamo del tempo insieme (...)". Poche parole stralciate da una bella citazione di Marco Baliani, attore e regista, che introduce il Festival di narrazione dei paesi della Montagna, in programma ad Arzo il 31 agosto, il 1° e il 2 settembre 2001. La rassegna, che porta come titolo "Racconti qui e altrove", giunge alla sua seconda edizione e, forte del successo dello scorso anno, si presenta in forma ampliata. Non più due giorni ma tre. Cultori del racconto, quale veicolo di trasmissione di culture e modi di vivere diversi, l’Associazione Giullari di Gulliver e l’Associazione cultura popolare offrono al pubblico ticinese la possibilità la narrazione e i narratori d’oggi. Non più dunque i teatri ma le antiche corti e piazze di Arzo dove narratori dei paesi della montagna e narratori professionisti intrattengono il pubblico con la potenza evocatrice della parola, della gestualità ed espressività. E proprio per abituare gli abitanti dei paesi della montagna all'appuntamento di fine agosto, nel corso dell'estate saranno organizzati degli spettacoli preparatori. Giusto un "avant goût" per fa crescere dentro la passione e la voglia di abbondonarsi all'antica arte del racconto. Ecco alcuni nomi, tra i tanti, che animeranno il Festival di narrazione di Arzo. Il primo che presentiamo è Fabrizio Pagella, diplomato alla Civica Scuola d'Arte drammatica "Paolo Grassi" di Milano, attore e autore. Al Festival presenterà il pezzo Acqua Porca. Una storia che, sul filo del ricordo, rievoca le vicende dell'Acna di Cengio, una fabbrica di colori. Nel racconto domineranno le tinte fosche dei soprusi e quelle vive delle speranze di tanti operai piemontesi di quella fabbrica. Quindi ci sono Roberto Anglisani e Marco Baliani. Il primo è un narratore e attore che molto si impegna per rivalorizzare il racconto orale, soprattutto in Italia. Anglisani ha lavorato con numerose compagnie teatrali, tra le quali il Teatro dell'Elfo a Milano. Sempre nel capoluogo lombardo collabora come docente alla Scuola di Animazione pedagogica e si occupa della formazione di attori allo studio Raul Manso di Milano. Marco Baliani, nativo di Verbania, è autore, attore, regista teatrale con il gruppo "Ruotalibera". Da anni si occupa di narrazione a livello di ricerca e pratico, creando spettacoli per un solo attore narrante. Segnaliamo infine lo spettacolo Francesco a testa in giù, che Baliani ha allestito per la televisione. Spettacolo nel quale ha recitato anche Anglisani, di cui sopra. Ci saranno anche i Confabula, un gruppo di narratori. Come gli attori della Commedia dell'arte, basandosi su dei canovacci di fiabe tradizionali, imbastiranno il racconto affidandosi in gran parte all'improvvisazione. E concludiamo con il "visionario" Antonio Catalano. Non solo narratore ma pure attivo nel campo delle arti visive, al pubblico di Arzo proporrà un gioco fatto di oggetti, materiali, parole e luoghi. Lo potremo ascoltare in Concerto ostrogoto, una poesia fonica per voce vociante, e in La biblioteca di Cotrone, un incontro spettacolo per insegnare ai ragazzi come ralizzare i libri con i più disparati materiali. "Dio", è scritto nel Talmud, "ha creato l'uomo perché ama ascoltare le storie". Ma ad Arzo anche i mortali potranno godere del privilegio di ascoltarne di molto avvincenti.
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