Negli anni ’70 del Novecento gli stabilimenti tipografici della Rizzoli Editore a Milano occupavano 3.600 dipendenti. In via Civitavecchia e in via Palmanova nella zona nord-est della città dove si trovavano gli impianti, si respirava un’atmosfera operaia: tram pieni in corrispondenza dei cambiamenti di turno in fabbrica, passo svelto di chi entrava, facce stanche di chi usciva, poca voglia di parlare, solidarietà istintiva fra persone che percepivano tutte pressappoco lo stesso stipendio.

 

Il consiglio di fabbrica, a maggioranza comunista, aveva stoppato d’autorità i primi inserimenti di interinali per completare gli organici di notte e nei giorni festivi. Siccome i ritmi alle macchine fascicolatrici e impacchettatrici delle numerose riviste erano piuttosto sostenuti, per ogni ora di lavoro si aveva diritto a dieci minuti di pausa da trascorrere però al  gabinetto: ci si andava squadra per squadra scaglionati, certi leggevano la Gazzetta seduti dove si fa la pipì, certi fumavano, altri discutevano, fino a quando il caposquadra faceva un cenno e tutti tornavano alle macchine. Uno di questi interinali un po’ spaesati domanda a un operaio anziano se è obbligatorio fare la pausa in quel modo, l’anziano gli risponde con uno sguardo di disprezzo: cretino, è quello che abbiamo conquistato, vorresti andare a giocare a golf nell’orario di lavoro?


Oggi di operai alla Rizzoli – che dal 2003 si chiama RCS MediaGroup – ce ne sono soltanto 800, ogni passaggio è automatizzato, nessuno tocca più gli stampati, sono tutti davanti a uno schermo a premere dei tasti, probabilmente non vanno più in pausa organizzati, e producono lo stesso numero di stampati, se non di più, rispetto a 40 anni fa. Dove saranno andati a finire i soldi così risparmiati dai proprietari?  Il guadagno di produttività è finito nelle spericolate operazioni finanziarie condotte dalla famiglia Rizzoli con il Banco Ambrosiano di Guido Calvi, con lo Ior vaticano e con la loggia massonica P2 di Licio Gelli.


Da noi, per portare da 64 a 65 anni l’età di pensionamento delle donne e diminuire del 12% le future pensioni del secondo pilastro, si afferma che oggi si vive sempre più a lungo e sarebbe perciò ragionevole ritoccare verso l’alto l’età di pensionamento. Si sostiene inoltre che nel 1948 c’erano 6,5 persone attive per un pensionato, mentre oggi ce ne sono soltanto 3,4. Dunque, se non si interviene con una riforma complessiva, a partire dal 2027 l'Avs avrà un deficit di 9 miliardi all’anno, e anche il secondo pilastro, se non si riducono le pensioni, in futuro sarà in deficit.


Stranamente, coloro che riportano tali dati si dimenticano sempre di citare l’enorme aumento della produttività del lavoro nell’arco di tempo considerato: la parte di Pil creata in un anno da una persona che lavora a tempo pieno era di 56.000 franchi nel 1950, 113.000 nel 1975 e 156.000 nel 2013. Di conseguenza, se nel 1950 erano necessarie 7,3 persone attive per ogni beneficiario Avs, oggi ne bastano 1,7. Non è vero che esiste uno squilibrio tra lavoratori e pensionati, è vero il contrario: con meno lavoratori si mantengono più anziani e si avanzerebbero i soldi per introdurre il salario di cittadinanza, creare posti di lavoro per i giovani, finanziare un’unica cassa malati pubblica con tariffe proporzionali al reddito e tenere aperti tutti gli uffici postali. E finalmente ringraziare gli immigrati e i frontalieri che sono entrati nel nostro mondo del lavoro senza causare spese di formazione e che versano contributi all’Avs pur non avendone ancora usufruito.

Pubblicato il 

24.09.15

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