Il recente rapporto dell'Ufficio federale delle migrazioni sull'integrazione dei rifugiati è importante. Frutto di un'inchiesta in 21 cantoni, indaga sui veri problemi e indica piste utili per il difficile lavoro d'integrazione. I "rifugiati B", di cui tratta il rapporto, sono circa 3'000: richiedenti la cui domanda d'asilo è stata accolta ma non hanno ancora il domicilio, bensì il permesso di dimora. Sono sostenuti dalla Confederazione, che ne finanzia anche l'accompagnamento sociale. I loro problemi sono simili a quelli delle persone ammesse provvisoriamente, più numerose: 23'000, di cui 11'000 da oltre 7 anni.
Il punto debole è la mancata integrazione professionale di molti, complici le regole restrittive per il loro impiego vigenti fino al 2006, l'accesso difficile al mercato del lavoro (non solo per loro), e alcune loro caratteristiche specifiche di formazione, competenze linguistiche, salute. Solo il 22 per cento dei rifugiati è attivo professionalmente, solo il 18 per cento è del tutto indipendente da prestazioni assistenziali. Al momento della concessione dell'asilo 22 per cento lavora, un anno dopo solo 17per cento: profittatori, dirà qualcuno, ma si sbaglia. I rifugiati in formazione raddoppiano (per assicurarsi opportunità durature d'integrazione professionale) e, al quinto anno, la quota di chi lavora sale al 32 per cento. La nascita di figli o il ricongiungimento familiare allontana però dall'attività lucrativa una buona parte delle donne (come fra gli svizzeri o gli stranieri domiciliati…).
Le competenze linguistiche ci sono, ma insufficienti: l'81 per cento dei rifugiati è in grado di condurre una "conversazione semplice" (non è male: immaginiamoci noi in Cecenia, Etiopia o Irak). Non è però sufficiente per  un lavoro complesso, mentre lo è per lavori di manovalanza dove i rifugiati sono frequenti.
La salute è un problema, non è inventato, e si aggrava con il tempo e le condizioni di marginalità in cui molti rifugiati vivono. I loro operatori sociali intravedono sovente malattie psichiche, mentre loro stessi menzionano disturbi fisici. La questione, dice il rapporto, è da chiarire, e denota una difficoltà di comunicazione "culturale" fra noi e loro.
Le principali raccomandazioni del rapporto sono le seguenti: per l'integrazione professionale, imparare dai cantoni che ottengono i migliori risultati (Ginevra, San Gallo, Vallese) e sviluppare la collaborazione fra enti preposti alla formazione, collocamento, salute/invalidità, accompagnamento sociale; per le competenze linguistiche, promuovere corsi adatti alle donne con bambini e differenziare i corsi in base alle potenzialità individuali; per la salute, promuovere un approccio individualizzato e coordinato ("case management"), ricorrere a mediatori culturali, favorire comunque l'inserimento professionale (come fa l'AI); per l'integrazione sociale in genere, il rapporto raccomanda soprattutto di "evitare i luoghi comuni, le conclusioni a priori, i pregiudizi da una parte e dall'altra". Ne saremo capaci?

Pubblicato il 

27.06.08

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