In un articolo mi ero permesso di parlare di “buon senso”. Buon senso o quella “capacità ritenuta naturale, istintiva, di giudicare rettamente, soprattutto con le cose pratiche”. Un consigliere di stato socialista, un amico, mi disse: bisogna stare attenti con il buon senso; serve spesso per giustificare le cattive intenzioni o per vestire semplificazioni e castronerie. Benché ammetto, aggiungeva, che alle volte lo si tiene nascosto per paura del senso comune, che ci condanna. Complicato, è vero. Tanto più che mi avevano sempre detto che il buon senso dev’essere una capacità del buon giornalista, divagante e una correzione per l’economista, matematico. Ho riscoperto, quasi un fulmine, quell’avvertimento, udendo per caso sulla ossequiente Foxnews il ripescato Trump proclamare, cito a memoria: “Questo risultato è un riallineamento storico; abbiamo riunito i cittadini di tutti gli orizzonti attorno a un orizzonte comune, quello del buon senso. Sapete (You know, molto partecipativo, con l’indice autoritario puntato sul “popolo”), noi siamo il partito del buon senso”. Intendiamoci, da secoli, uomini e donne di tutte le provenienze ideologiche, si sono regolarmente serviti del buon senso per giustificare i loro atti o le loro politiche, anche scellerate. Ciò che sembra però specifico di questi tempi è che gli attori politici di destra o destra estrema utilizzano il buon senso in maniera continua, sistematica. Se ne è avuta una eloquente dimostrazione alla recente “National Conservatism Conference” a Bruxelles, che riuniva dirigenti e intellettuali europei di destra e destra estrema, quando in più di un intervento si sono presentate le politiche o gli indirizzi economici dei movimenti progressisti europei come “mostruosamente contrari al buon senso”, soprattutto ai “valori tradizionali cristiani” (e con un papa, si è persino aggiunto, che, sinistramente, li vuol dimenticare). Si è così dato vita a una astrusità. Da un lato è innegabile che la nozione di buon senso ha anche creato un terreno favorevole all’emergere delle democrazie liberali. D’altro lato essa permette, ora, ad attori politici di destra di farne un’arma, tanto insidiosa quanto sistematica e raggruppante, contro il pluralismo e la democrazia stessa. I problemi cui sono confrontati tutti i Paesi sono sempre più complessi, alle volte appaiono inestricabili (lo si è detto anche per certe recenti votazioni). Esigono soluzioni globali (pensiamo al clima; alla difesa d’ogni sorta, militare o cibernetica; al commercio internazionale con il libero scambio ritenuto creatore di ricchezza e il protezionismo preteso come salvezza; all’agricoltura o al turismo e alla continua devastazione del territorio; all’immigrazione necessaria ma deprecata e al diritto del lavoro ostacolato; alla socialità opposta alla demografia; al debito in casa e agli investimenti all’estero). Soluzioni tutte difficili da immaginare o combinare o accettare perché impegnative, onerose, ridistributive. La gente, i cittadini gli elettori sono allora affascinati da soluzioni presentate come radicali, ovvie, di “buon senso”. Dai partiti facili non da quelli impegnativi. E in questa semplificazione è abilissima la destra, che ha scelto come emblema e metodo la “motosega”, il taglio. Stiamo però constatando (o accorgendoci, forse?) che la piccola e incantevole musica del buon senso sta portando al canto funebre della ragion democratica (con l’economia per i ricchi e quella per i poveri, la finanza gonfia per pochi e distruttiva per tutti, l’indifferenza anestetizzante, l’assenteismo, il nazionalismo, l’autoritarismo e il fascismo ringalluzzito). |