La mano invisibile

Un termine ch’era stato quasi trascurato, torna a preoccupare: inflazione. Il termometro dell’inflazione è l’indice dei prezzi al consumo, calcolato sulla base di un cosiddetto “paniere di beni e servizi” rappresentativo degli effettivi consumi in uno specifico tempo. Non vi appaiono i premi delle casse malati in quanto «servono al finanziamento  di un determinato consumo futuro e non rientrano nel consumo privato in senso stretto». Quanto a dire che ciò che conta è il potere d’acquisto (quanto puoi comperare in beni e servizi e far fronte alle spese “obbligatorie”, come i premi di cassa malati, con il reddito o il salario che hai a disposizione). L’inflazione falcidia però il potere d’acquisto. Potremmo  considerarla in due modi.


Il primo è ch’essa porta subito a un riflesso politico-economico che rende potenzialmente colpevole di ogni evoluzione inflazionistica il salariato o chi lo rappresenta (il sindacato). Si tira subito fuori, come grande minaccia, la “spirale prezzi-salari”. Avverte la nota di un bollettino degli ambienti economici: «Tutti saremmo perdenti nel caso di un aumento dei salari».

 

Se teniamo presente che c’è di fatto un calo del salario reale (salario nominale meno tasso di inflazione) e quindi del potere d’acquisto, si potrebbe sostenere che in tal modo la lotta contro l’inflazione si traduce in violenza sociale. Che assume un aspetto ancora più violento quando un ministro delle Finanze, l’Udc Maurer, viene a difendere, in questo momento, la soppressione di imposte che favoriscono chi già possiede, con l’immancabile ipocrita giustificazione che si creeranno così nuovi posti di lavoro.


Il secondo modo di guardare l’inflazione è pressoché ignorato, ma è fondamentale. Con il neoliberalismo trionfante a partire dagli anni 80 ha preso avvio un modello economico particolare. Fondato apertamente sulla creazione di valore per l’azionista, tende a ridurre i costi con tutti i mezzi possibili, dando una priorità assoluta all’aumento dei profitti.

 

Tutto questo ha portato a una “moderazione salariale”, generalizzatasi nei paesi sviluppati grazie alla mondializzazione, con la messa in concorrenza dei lavoratori tra di loro, con la dislocazione di numerose attività produttive nei paesi a bassi o miseri salari. Ci si convinse che tutti ne traevano un tornaconto (ignorando comunque le conseguenze climatiche): sfruttamento senza remissione della natura, immensi profitti per le multinazionali, esplosiva distribuzione di dividendi (da primato ancora lo scorso anno), consumatori felici per costi e prezzi bassi, che compensavano (ingannevolmente) il calo della parte dei salari reali nel valore aggiunto o nella ricchezza creata.


Questo modello sta ora crollando sotto i nostri occhi. E non solo a causa di una pandemia o della guerra in Ucraina (choc esogeni che potranno essere riassorbiti, dicono gli economisti neoliberisti). Perché l’inflazione non è dovuta alla ripresa spirale prezzi-salari, come vorrebbero farci credere, ma innegabilmente alla spirale prezzi-profitti che sta facendo sfracelli. Come si può non vederlo, ignorarlo politicamente, se si ponesse mente (o intelligenza) al solo tasso di margine di profitto dei raffinatori (benzina ecc.) moltiplicatosi del 2.300% (sì, avete letto bene!) in un anno?

 

E che dire del prezzo dell’elettricità, paradossalmente “tirato” da quello del gas, anche quando il gas ha un posto tutto sommato relativo (13 per cento) nel “mix” elvetico? Siamo arrivati, tragicamente, alla caricatura di un modello. In alcuni paesi se ne sono accorti, e decidono di tassare i superprofitti. In Svizzera si penserà ancora a deduzioni... per creare lavoro.

Pubblicato il 

01.09.22
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