L'industria svizzera in estinzione e la politica latitante

Non vedo nessuna soluzione. Non ci posso fare nulla. Non voglio immischiarmi, il mercato regolerà tutto. Questa è l’attitudine del Consiglio federale quando si tratta di impieghi necessari alla Svizzera. Il Consiglio federale e numerosi governi cantonali prestano scarsa attenzione al destino di lavoratrici e lavoratori e della pace sociale. L'estate scorsa, quando il gigante mondiale Alcan ha soppresso 110 impieghi in Vallese dove beneficia, fra gli altri aiuti statali, di milioni di franchi di agevolazioni fiscali e di sconti sul prezzo dell’energia elettrica, il consigliere nazionale socialista Jean-Noël Rey ha pregato il Consiglio federale di intervenire. Gli è stato risposto seccamente che un piano sociale era previsto: «Il Consiglio federale deplora la soppressione di posti di lavoro. Per contro, non intende influenzare direttamente le decisioni delle imprese». Questo è il modo in cui lo Stato difende gli interessi dei salariati di questo paese. Da allora Alcan ha pure annunciato la fine della produzione di alluminio a Steg, senza nemmeno aspettare la conclusione delle negoziazioni condotte in vista di trovare altre soluzioni. Sono altri 180 impieghi a saltare. La liquidazione dell’industria vallesana dell’alluminio prosegue. Presto non rimarranno che qualche centinaia di posti di lavoro, poco sicuri perdipiù, contro le migliaia di un tempo. Perché lo smontaggio brutale segue non dei criteri industriali, bensì un piano globale. In Vallese Alcan potrebbe benissimo perseguire una produzione di alluminio redditizia. Ma la multinazionale si sta riorganizzando su scala planetaria. Perché? La Borsa e il capitale finanziario la mettono sotto pressione. I miliardi di benefici realizzati da Alcan sono ritenuti insufficienti, dei profitti dal 15 al 20 per cento sarebbero il minimo ai loro occhi. L’elevato prezzo dell’energia elettrica non è che un pretesto benvenuto per chiudere la fabbrica di alluminio. Da un punto di vista macroeconomico si tratta di un’aberrazione, ma un’aberrazione che dura da più di un decennio. Il capitalismo finanziario provoca la deindustrializzazione della Svizzera. A Steg come a Reconvilier (si veda l’articolo in pagina), ad Alstom o Bombardier, il Consiglio federale resta con le braccia incrociate e la politica si rifiuta di giocare il suo ruolo. Ci si trincera dietro la “mondializzazione”. La politica non può fare nulla, pretende il Consiglio federale. Ma in cosa consiste questa mondializzazione? Parliamo degli scambi di merci, dei flussi di informazione, di una nuova ripartizione del lavoro su scala internazionale? Fandonie! Tutto questo esiste da tempo. La novità nel capitalismo del XXI secolo è che i grandi gruppi e i loro padroni si disinteressano dell’economia nazionale. Hanno rotto il contratto sociale (ossia l’offerta della forza lavoro in cambio della sicurezza sociale). La Svizzera per loro è un luogo da saccheggiare. Quando smette di produrre grossi profitti, fanno le valigie. Incombe evidentemente alla politica opporre a questi predatori una politica industriale assennata. Le misure da prendere sono conosciute. Bisognerebbe dare degli impulsi a una crescita sostenibile, a forte valore aggiunto. Incoraggiare le industrie strategiche. Investire nell’innovazione. Costruire una rete industriale (“cluster”) sul savoir-faire locale. Promuovere le trasformazioni ecologiche (le industrie “verdi” hanno il vento in poppa). Il sindacato Unia e la sinistra politica hanno formulato da tempo decine di proposte concrete in questo senso. Una buona politica industriale implica ancora delle sovvenzioni, dei mercati pubblici, delle agevolazioni fiscali, ecc. collegati alla creazione di impieghi e di filiere di formazione, a salari attrattivi e a buoni contratti collettivi. S’impone pure un’armonizzazione fiscale. Infine, e soprattutto, la politica deve tornare al suo compito originario, ovvero domare il capitalismo selvaggio per armonizzare l’economia e la società. A questo proposito deve poggiare su un servizio pubblico forte e investire nel futuro. I paesi nordici che realizzano investimenti pubblici nell’economia sono oggi molto più in forma della Svizzera. Possiedono tassi di crescita invidiabili, salari più elevati, industrie di punta e migliori qualifiche. E invece il Consiglio federale a maggioranza borghese professa sempre il suo credo neoliberale sorpassato: meno Stato, meno spese sociali, risparmi. E ormai si parla di separarsi da Swisscom, la migliore “vacca da mungere” della Confederazione. Non è per nulla sorprendente, in un momento in cui il governo subisce l’influenza di Christoph Blocher, Blocher che col suo amico Ebner aveva acquistato Alusuisse per smembrare quest’impresa e rivenderla con sostanziosi profitti. Oggi sono le lavoratrici e i lavoratori a farne le spese.

Pubblicato il

10.02.2006 01:00
André Daguet
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